Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

Esecuzione delle pene detentive – Corte cost., n. 41 del 2018, con nota di G. Malavasi

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, co. 5, c.p.p., nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni. Nella sentenza che qui si segnala, la Consulta ha ritenuto fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, co. 5, c.p.p. sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce. Il fulcro del ragionamento della Corte consiste nel principio del parallelismo tra il limite di pena indicato dalla disposizione censurata ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione e il corrispondente limite previsto ai fini dell’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova. A seguito della introduzione (con l. 21 febbraio 2014, n. 10) dell’affidamento in prova c.d. allargato, per il condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di reclusione (art. 47, co. 3-bis, o.p.), il legislatore non ha provveduto ad adeguare il limite (triennale) previsto dall’art. 656, co. 5, c.p.p. al fine di sospendere le pene comprese tra tre anni e un giorno e quattro anni di detenzione, in vista dell’accesso all’affidamento in prova allargato. Del resto – rileva la Corte – a tutt’oggi non è stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con l’art. 1, co. 85, lett. c), l. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. Riforma Orlando), il quale dà espressa indicazione di prevedere che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato, in ogni caso, a quattro anni. Da qui, la perdurante incoerenza normativa sotto il profilo sistematico: viene spezzato quel filo che lega la sospensione dell’ordine di esecuzione alla possibilità riconosciuta al condannato di sottoporsi ad un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario. Né è possibile – come ha accertato la Consulta – che l’attuale incongruità legislativa trovi una non irragionevole giustificazione per allontanarsi, in questo peculiare caso, dal parallelismo di cui si è detto. Omettendo di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore – secondo il Giudice delle leggi – non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato. La Corte ha, infine, ritenuto assorbita la censura basata sull’art. 27, co. 3, Cost. (A. Capitta)

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