Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

Messa alla prova/Processi in corso - Corte cost., n. 240 del 2015

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La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, co. 2, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, dal Tribunale ordinario di Torino in composizione monocratica, nella parte in cui tale disposizione, in assenza di una disciplina transitoria analoga a quella di cui all’art. 15-bis, co. 1, legge 11 agosto 2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014.


La Consulta ha, innanzitutto, chiarito come l’art. 464-bis c.p.p., nella parte censurata, riguardi esclusivamente il processo e sia espressione del principio tempus regit actum. Dunque, tale  disposizione, là dove esclude l’applicazione del nuovo istituto ai procedimenti pendenti nei quali sia già avvenuta l’apertura del dibattimento, è da ritenersi costituzionalmente legittima e costituisce il frutto di una scelta riservata al legislatore nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità in materia processuale.


La sentenza qui in rassegna si segnala, in particolare, per i richiami effettuati dal Giudice delle leggi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dalla quale emerge in modo limpido – in casi analoghi riguardanti norme processuali – l’insostenibilità dell’asserita violazione dell’art. 7 CEDU.


La preclusione di cui il rimettente lamenta gli effetti è conseguenza – come osserva la Consulta – non della mancanza di retroattività della norma penale più favorevole, ma del normale regime temporale della norma processuale, rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 CEDU (pur attraverso il parametro interposto di cui all’art. 117 Cost.) risulta fuori luogo. Né può ritenersi censurabile in forza dell'art. 7 CEDU – precisa la Corte – la mancanza di una diversa disciplina transitoria che preveda una deroga al principio tempus regit actum.


                                                                                                                                       A.C.