Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

La Consulta esclude l’incompatibilità del giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta di messa alla prova – Corte cost., n. 64 del 2022

Anna Maria Capitta

Corte cost.



    Con la sentenza n. 64 del 2022, depositata il 10 marzo 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, co. 2, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, co. 2, e 111, co. 2, Cost., dai Tribunali ordinari di Spoleto e di Palermo, nella parte in cui tale disposizione non prevede che il giudice del dibattimento che ha rigettato la richiesta dell’imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova non possa partecipare al giudizio che prosegue nelle forme ordinarie.
    La presente pronuncia di non fondatezza si basa sul principio generale di non configurabilità di una incompatibilità “endofasica”, da tempo elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Nella fattispecie, il provvedimento di rigetto della richiesta di messa alla prova, cui i rimettenti avrebbero inteso annettere efficacia pregiudicante, si colloca, non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella stessa fase – quella dibattimentale – rispetto alla quale l’invocato effetto pregiudicante dovrebbe dispiegarsi. Ciò, secondo la Consulta, esclude in radice la configurabilità di una situazione di incompatibilità costituzionalmente necessaria.
    Questo, in sintesi, il fulcro della motivazione della sentenza, che muove anzitutto dal rilievo secondo cui le norme sulla incompatibilità del giudice sono poste a tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, co. 2, 111, co. 2, Cost. Queste norme codicistiche risultano infatti finalizzate a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (v., ex plurimis, sent. cost. n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013 e n. 153 del 2012). In particolare, l’art. 34 c.p.p. si occupa, al co. 2 – oggetto di censura – della c.d. incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede.
    Ciò premesso, la Corte ha ribadito come la previsione dell’incompatibilità del giudice debba ritenersi costituzionalmente necessaria nel concorso di quattro condizioni (v., sent. cost. n. 16 del 2022, n. 153 del 2012). In primo luogo, presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda. Inoltre, non basta a generare l’incompatibilità la semplice conoscenza di atti anteriormente compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione di essi, strumentale all’assunzione di una decisione. In terzo luogo, tale decisione deve avere natura non “formale”, ma “di contenuto”: essa deve comportare, cioè, valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi di accusa. Da ultimo – e soprattutto, per quanto qui rileva – affinché insorga l’incompatibilità è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.
    Già da tempo, e a partire almeno dal 1996, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che, all’interno di ciascuna delle fasi, deve essere preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, e che, in questi casi, il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito, senza che ne possa essere spogliato: anzi, «è la competenza ad adottare il provvedimento dal quale si vorrebbe far derivare l’incompatibilità che presuppone la competenza per il giudizio di merito e si giustifica in ragione di essa» (sent. cost. n. 177 del 1996; v. anche sent. cost. n. 131 del 1996: con queste due sentenze la Corte ha messo a punto in modo definitivo i presupposti dell’incompatibilità costituzionalmente rilevante).
    Alla luce di questi principi, la Consulta ha ritenuto di non poter condividere le censure formulate dai giudici a quibus.
    Secondo i rimettenti, il rigetto della richiesta di messa alla prova comporterebbe una approfondita valutazione sul merito della res iudicanda. Il Giudice delle leggi non prende in considerazione la validità o meno di questa ricostruzione, operata nelle ordinanze di rimessione, che, al più, soddisferebbe le prime tre condizioni, e in particolare la terza, tra quelle enumerate nella sentenza in esame. La Corte si concentra, piuttosto, su un punto essenziale, di cui i rimettenti non tengono conto e che è inerente al quarto requisito in presenza del quale si determina l’insorgere della incompatibilità: la necessità, cioè, che l’attività pregiudicante si collochi in una fase processuale distinta da quella pregiudicata. Il presupposto concernente il limite endofasico dell’incompatibilità non sussiste nell’ipotesi in cui il giudice del dibattimento partecipi al giudizio ordinario dopo aver respinto la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Il provvedimento di rigetto del rito speciale si colloca infatti nella stessa fase rispetto alla quale l’asserito effetto pregiudicante si dovrebbe produrre: ad avviso della Corte, ciò basta a escludere, nel caso di specie, la configurabilità di una situazione di incompatibilità.
    La sentenza qui pubblicata si pone in linea con la costante giurisprudenza della Corte, nella quale sono riscontrabili numerose applicazioni del principio di non configurabilità della incompatibilità “endofasica”, anche rispetto a ipotesi del tutto analoghe a quella in esame: vale a dire, con riguardo a decisioni negative su richieste di ammissione a riti speciali o a forme alternative di definizione del procedimento, assunte dal giudice del dibattimento in sede di atti introduttivi (v., ord. cost. n. 76 del 2007, n. 433 del 2006, n. 370 del 2000 e n. 232 del 1999. L’unico precedente in senso contrario – sent. cost. n. 186 del 1992 – è da considerarsi ormai superato dalla successiva evoluzione della giurisprudenza costituzionale).