Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

Divieto di sospensione dell’esecuzione della pena per il delitto di furto in abitazione – Corte cost., n. 14 del 2024

Anna Maria Capitta

Corte cost.

Con l’ordinanza n. 14 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, co. 3, Cost., dal Tribunale ordinario di Catania, prima sezione penale, nella parte in cui tale disposizione stabilisce che la sospensione dell’esecuzione della pena non può essere disposta nei confronti dei condannati per il delitto di furto in abitazione di cui all’art. 624-bis c.p.
La Consulta ha ricordato che questioni identiche a quelle sollevate dal rimettente sono state ritenute non fondate con la sentenza n. 216 del 2019 e poi manifestamente infondate con l’ordinanza n. 67 del 2020.
Con queste decisioni si è anzitutto escluso il vizio di irragionevolezza della disposizione censurata.
Il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione trova infatti la propria ratio nella discrezionale, e non irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto di chi, per commettere il furto, entri in un’abitazione altrui, ovvero in altro luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, e alla speciale pericolosità soggettiva manifestata dall’autore di un simile reato.
Nelle pronunce n. 216 del 2019 e n. 67 del 2020, si è altresì negato che la disciplina scrutinata dia luogo a un irragionevole automatismo legislativo: il legislatore, infatti, con valutazione immune da censure sul piano costituzionale, ha ritenuto che – indipendentemente dalla gravità della condotta posta in essere dal condannato e dall’entità della pena irrogatagli – la pericolosità individuale evidenziata dalla violazione dell’altrui domicilio rappresenti ragione sufficiente per negare in via generale ai condannati per il delitto in esame il beneficio della sospensione dell’ordine di carcerazione.
La Corte ha, poi, richiamato nuovamente le decisioni del 2019 e del 2020, per sottolineare come nelle stesse sia stato ritenuto insussistente il lamentato contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, co. 3, Cost., dal momento che la valutazione individualizzata rispetto alla possibile concessione dei benefici penitenziari resta pur sempre demandata al tribunale di sorveglianza in sede di esame dell’istanza di concessione dei benefici.
Infine, la Consulta ha rimarcato l’opportunità di un intervento legislativo volto a rimediare alla incongruenza cui può dar luogo il difetto di coordinamento attualmente esistente tra la disciplina processuale (art. 656, co. 5 e 9, lett. a), c.p.p.) e quella sostanziale relativa ai presupposti per accedere alle misure alternative alla detenzione: per i reati elencati dall’art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p., diversi da quelli di cui all’art. 4-bis ord. penit., la vigente disciplina sostanziale riconosce infatti la possibilità di accedere a talune misure alternative sin dall’inizio dell’esecuzione della pena. In particolare – ha ribadito la Corte – vi può essere il rischio concreto che la valutazione del tribunale di sorveglianza sull’istanza di concessione dei benefici intervenga dopo che il condannato abbia interamente o quasi scontato in carcere la propria pena.