Con la sentenza n. 116 del 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato:
1) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, co. 4 e 5, c.p.p., in combinato disposto con l’art. 411, co. 1 e 1-bis, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 13, 25, co. 2, 76 e 101, co. 2, Cost., dal G.i.p. del Tribunale ordinario di Nola, nella parte in cui tali disposizioni non consentono al giudice per le indagini preliminari, a fronte di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, previa fissazione dell’udienza camerale, sentite le parti e stante la mancata opposizione dell’indagato;
2) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, co. 4 e 5, c.p.p., in combinato disposto con l’art. 411, co. 1 e 1-bis, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, co. 1 e 3, 111, co. 2, e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 14, co. 3, lett. c), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, dal G.i.p. del Tribunale ordinario di Nola, nella parte in cui tali disposizioni non consentono al giudice per le indagini preliminari, a fronte di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato, di pronunciare ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, previa fissazione dell’udienza camerale, sentite le parti e stante la mancata opposizione dell’indagato.
Le questioni formulate hanno ad oggetto il diritto vivente che il rimettente ha desunto da una serie di pronunce della Corte di cassazione, nelle quali è stata rilevata la nullità del provvedimento del G.i.p. che, investito di una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato ex art. 408 c.p.p., disponga – in esito all’udienza di cui all’art. 409, co. 2, c.p.p. – l’archiviazione per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p. (Cass., Sez. VI, 13 febbraio 2018, Trivelli, n. 6959, Rv. 272483; Id., Sez. V, 5 settembre 2017, Serra, n. 40293, Rv. 271010; Id., Sez. V, 5 settembre 2016, Ruggiero, n. 36857, Rv. 268323). Tale diritto vivente si porrebbe in contrasto con i molti parametri costituzionali e interposti evocati dal medesimo giudice rimettente.
La Consulta ha ritenuto inammissibili le censure formulate in riferimento agli artt. 13, 25, co. 2, e 76 Cost., per carenza di motivazione, e ugualmente inammissibili le questioni sollevate in riferimento all’art. 101, co. 2, Cost., per inconferenza del parametro indicato dal giudice a quo.
Le censure prospettate in riferimento agli altri parametri costituzionali sono, invece, state dichiarate non fondate.
La Corte ha esaminato anzitutto un gruppo di censure con il quale il rimettente ha dubitato della compatibilità del diritto vivente sopra menzionato con i principi di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e di ragionevole durata del processo, quest’ultimo sancito dall’art. 111, co. 2, Cost. e dai corrispondenti parametri sovranazionali, rilevanti nell’ordinamento nazionale in forza dell’art. 117, co. 1, Cost.
Al riguardo, la sentenza in esame ha rammentato la propria giurisprudenza in tema di ragionevole durata del processo, precisando, in particolare, come la nozione di “ragionevole” durata del processo sia sempre il frutto di un bilanciamento particolarmente delicato tra i molteplici, e tra loro confliggenti, interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo: […] sicché, una violazione del principio della ragionevole durata del processo potrà essere ravvisata soltanto allorché l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza e si riveli privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa (ex plurimis, sent. cost., n. 260 del 2020; n. 12 del 2016; n. 159 del 2014). D’altra parte, in una sua precedente pronuncia, il Giudice delle leggi aveva affermato icasticamente che «ciò che rileva è esclusivamente la durata del giusto processo: […] [u]n processo non ‘giusto’, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata» (sent. cost. n. 317 del 2009).
Alla luce di questi principi, la Corte ha osservato come lo specifico meccanismo procedurale stabilito dall’art. 411, co. 1-bis, c.p.p. per il proscioglimento per particolare tenuità del fatto – funzionale al pieno esercizio del diritto di difesa dell’indagato e della persona offesa – verrebbe sensibilmente alterato ove si consentisse al G.i.p. di disporre direttamente l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in difformità dalla richiesta del pubblico ministero e in esito a un’udienza fissata ai sensi dell’art. 409, co. 2, c.p.p., senza che sia stata previamente notificata alle parti la possibilità di una formula di archiviazione diversa da quella prospettata dal pubblico ministero e sulla base soltanto di un contraddittorio sollecitato per la prima volta durante l’udienza. Inoltre – ha rilevato la Corte – la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto presuppone normalmente il previo esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e costituisce una pronuncia soltanto parzialmente liberatoria, con la quale si dà pur sempre atto dell’avvenuta commissione di un fatto di reato, ancorché in concreto non punibile per la particolare esiguità del danno o del pericolo cagionato. Per cui – prosegue la Consulta – là dove il pubblico ministero abbia invece richiesto l’archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p., ritenendo insussistente o non sufficientemente provato il fatto, è del tutto coerente con il sistema disegnato dal legislatore la soluzione interpretativa, cui è pervenuta la Corte di cassazione, di non consentire al G.i.p. di sostituirsi al pubblico ministero e di apprezzare direttamente l’avvenuta commissione del fatto medesimo, anche soltanto al fine di dichiararlo non punibile ai sensi dell’art. 131-bis c.p.
Secondo la Corte, dunque, lo schema legislativo, così come non irragionevolmente ricostruito dalla giurisprudenza di legittimità, esige che in caso di dissenso del G.i.p. sulla richiesta del pubblico ministero la parola torni a quest’ultimo per le determinazioni di sua competenza e impone, altresì, che tutti i soggetti processuali siano posti in condizione di interloquire su tali determinazioni. L’effetto di allungamento dei tempi processuali che ne deriva – ha concluso la Corte – non può, pertanto, ritenersi sfornito di ogni legittima ratio giustificativa e, per tale ragione, non entra in collisione né con il generale principio di ragionevolezza, né con quello della ragionevole durata del processo.
La Corte ha ritenuto altresì non fondate le censure formulate in riferimento all’art. 3 Cost., sotto i distinti profili dell’irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe e di irragionevole equiparazione di trattamento di situazioni diverse.
Ad avviso del rimettente, vi sarebbe, per esempio, una irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi in cui il riconoscimento della non punibilità per particolare tenuità del fatto può avvenire, previa audizione delle parti, in sede predibattimentale, ai sensi dell’art. 469, co. 1-bis, c.p.p. Secondo la Corte, il tertium comparationis non sarebbe tuttavia omogeneo, dal momento che il pubblico ministero ha, in quel caso, esercitato l’azione penale, avendo ritenuto sussistente il reato: ciò che, invece, non accade nell’ipotesi in esame, in cui il pubblico ministero ha formulato una richiesta di archiviazione per infondatezza della notizia di reato.
Infine, il Giudice delle leggi ha reputato non fondate le censure prospettate in riferimento agli artt. 3 e 27, co. 1 e 3, Cost., con particolare riguardo al principio di proporzionalità della pena, e, su questo specifico punto, ha rilevato che, anche nell’ipotesi in cui il pubblico ministero formulasse l’imputazione su disposizione del G.i.p. e venisse celebrato un processo per un reato di particolare tenuità, nulla vieterebbe poi al giudice del dibattimento di assolvere l’imputato proprio ai sensi dell’art. 131-bis c.p., evitando così di applicare una pena sproporzionata rispetto al fatto di reato commesso.