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Carcer passus in poenam cedit: l’enigmatica costituzionalità della custodia preventiva decifrata dalla categoria dogmatica della pena informale

Mario Caterini

Archivio Penale
© dell'autore 2025
Ricevuto: 30 June 2025 | Accettato: 30 July 2025 | Pubblicato: 30 July 2025


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Riassunto

​Il saggio analizza la legittimità costituzionale della custodia cautelare e la sua relazione con la pena, sostenendo che lo scomputo del presofferto non sia un mero istituto di equità, ma un implicito principio costituzionale. Attraverso una ricostruzione storica che muove dal diritto romano, attraversa lo ius commune e il pensiero illuminista fino alle codificazioni italiane dell’Ottocento e del Novecento, l’articolo dimostra come il principio del carcer passus in poenam cedit sia il risultato di un lungo e controverso percorso evolutivo. Il nucleo dell’argomentazione si fonda sulla risoluzione dell’apparente antinomia tra la presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) e l’ammessa privazione della libertà personale prima della condanna (art. 13 Cost.). Tale dilemma viene superato attraverso la categoria dogmatica della pena informale, definita come una sofferenza che, pur essendo conseguenza del reato, è ab origine priva di un formale scopo punitivo. La carcerazione preventiva si configura come una species di tale genus: una pena informale mediata dallo Stato, la cui legittimità ex ante sembra garantita dalla sua finalità cautelare. Tuttavia, in caso di condanna, la mancata detrazione del presofferto trasformerebbe la misura cautelare in un surplus di afflizione, rendendo sproporzionato il complessivo patimento conseguente al reato e violando i princìpi di legalità, proporzionalità e la stessa funzione rieducativa della pena. Lo scomputo opera, quindi, come un meccanismo di ‘legalizzazione’ ex post, che assorbe la pena informale in quella forense, ristabilendo l’equilibrio del sistema e confermando la sua coerenza costituzionale. Lungi dal legittimare l’abuso della custodia cautelare, la categoria della pena informale ne rafforza la natura di extrema ratio, denunciando il danno irreparabile per gli assolti e la compromissione della funzione rieducativa della pena per i condannati.

The essay analyzes the constitutional legitimacy of pre-trial detention and its relationship with the penalty, arguing that the deduction of time served is not a mere institute of equity, but an implicit constitutional principle. Through a historical reconstruction that moves from Roman law, passes through the ‘ius commune’ and Enlightenment thought up to the Italian codifications of the nineteenth and twentieth centuries, the article demonstrates how the principle of ‘carcer passus in poenam cedit’ is the result of a long and controversial evolutionary path. The core of the argument is based on the resolution of the apparent antinomy between the presumption of not-guilt (Art. 27 of the Constitution) and the per- mitted deprivation of personal liberty before conviction (Art. 13 of the Constitution). This dilemma is overcome through the dogmatic category of informal punishment, defined as a suffering that, despite being a consequence of the crime, is ab origine devoid of a formal punitive purpose. Pre-trial detention is configured as a ‘species’ of this ‘genus’: an informal punishment mediated by the State, whose ‘ex ante’ legitimacy is guaranteed by its precautionary purpose. However, in the event of a conviction, the failure to deduct the time served would transform the precautionary measure into a ‘surplus’ of affliction, making the overall suffering resulting from the crime disproportionate and violating the principles of legality, proportionality, and the re-educational function of the penalty itself. The deduction, there- fore, operates as an ‘ex post’ ‘legalization’ mechanism, which absorbs the informal punishment into the forensic one, re-establishing the system’s balance and confirming its constitutional coherence. Far from legitimizing the abuse of pre-trial detention, the concept of ‘informal punishment’ reinforces its nature as an ‘extrema ratio’, by highlighting the irreparable harm to those who are acquitted and the undermining of the rehabilitative function of the formal sentence for the convicted.


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