Con la sentenza n. 230 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521, co. 2, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo, nella parte in cui tale disposizione non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione.
La Consulta ha anzitutto ritenuto corretta la premessa ermeneutica da cui si è mosso il giudice rimettente, relativa all’impossibilità di estendere la disciplina dettata per il fatto «diverso» all’ipotesi del fatto connotato da una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero. Del resto, la giurisprudenza di legittimità considera abnorme il provvedimento del giudice che, rilevata l’omessa contestazione della recidiva nell’imputazione, restituisca gli atti al pubblico ministero affinché la riformuli (Cass., Sez. I, 5 luglio 2011, n. 30498).
Tale diritto vivente è stato ritenuto, dal giudice a quo, produttivo di irragionevoli disparità di trattamento censurabili al metro dell’art. 3 Cost.
La Corte ha rilevato una differenza essenziale tra l’ipotesi di fatto «diverso» da quello contestato e quella in cui risultino circostanze aggravanti del fatto non contestate dal pubblico ministero. In caso di fatto «diverso», il giudice, ove non potesse restituire gli atti al pubblico ministero, dovrebbe tout court assolvere l’imputato; quando invece il giudice rileva la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l’esito del giudizio resta comunque una pronuncia di condanna, seppur limitata al fatto contestato, non qualificato dall’aggravante. I giudici costituzionali hanno perciò osservato come la soluzione adottata dal legislatore sia stata quella di calibrare la regola della restituzione degli atti al pubblico ministero, con il suo carico di allungamento dei tempi processuali, sulla sola ipotesi del fatto «diverso», in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunità di chi sia risultato autore di un fatto di reato, privilegiando invece le ragioni di tutela della ragionevole durata del processo e della posizione di terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l’errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto sulla misura della pena da infliggere a un imputato comunque condannato per il fatto di reato risultato provato in sede processuale.
A giudizio della Corte, tale scelta legislativa individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi in gioco, tutti di grande rilievo nel vigente sistema processuale penale, ed è, in ogni caso, ben lungi dal poter essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà. Da qui, la non fondatezza della censura basata sul parametro di cui all’art. 3 Cost.
Sul piano generale, si può evidenziare come la Corte abbia espressamente spiegato i motivi del proprio atteggiamento di particolare cautela nello scrutinio delle censure in materia processuale fondate sull’art. 3 Cost. La disciplina del processo – si legge nella sentenza – è, infatti, frutto di delicati bilanciamenti tra principi e interessi in naturale conflitto reciproco, sicché ogni intervento correttivo su una singola disposizione, volto ad assicurare una più ampia tutela a uno di tali principi o interessi, rischia di alterare gli equilibri complessivi del sistema. Lo standard del giudizio di legittimità costituzionale deve essere perciò particolarmente rispettoso della discrezionalità del legislatore, la quale è censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate (cfr., par. 3.1., Considerato in diritto).
Quanto alla doglianza relativa alla violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., la Consulta ha anzitutto ricordato che, per garantire l’effettività di tale principio, l’ordinamento prevede vari meccanismi che assicurano il controllo del giudice sulle determinazioni del pubblico ministero relative all’esercizio dell’azione penale. D’altra parte – ha sottolineato la Corte – il principio di obbligatorietà dell’azione penale non può essere ragionevolmente esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al pubblico ministero sulla concreta configurazione dell’imputazione: lo stesso ruolo del giudice non può essere inteso sino a ricomprendere un penetrante sindacato su tutte le scelte compiute dal pubblico ministero nella descrizione del fatto che costituisce il thema decidendum. Dunque, nella configurazione dei presupposti e dei limiti dei controlli del giudice sull’esercizio dell’azione penale non può non riconoscersi ampia discrezionalità al legislatore, il quale è chiamato a un bilanciamento tra i molti interessi in gioco. Tra questi, il Giudice delle leggi annovera anche il diritto di difesa dell’imputato e, in particolare, il diritto di quest’ultimo di predisporre la propria strategia difensiva in relazione all’imputazione, così come cristallizzata, e non a eventuali imputazioni alternative emerse nel corso del giudizio, anche solo in termini di circostanze aggravanti non ritualmente contestategli dal pubblico ministero.
Pertanto, anche sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 112 Cost., la disposizione censurata individua, ad avviso della Corte, un punto di equilibrio nient’affatto irragionevole tra i principi e gli interessi coinvolti nel processo penale. Di conseguenza, la censura formulata in riferimento all’art. 112 Cost. è stata ugu