Detenzione domiciliare – Corte cost., n. 211 del 2018
(A. Capitta)
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, co. 1, lett. b), e co. 8, l. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non limita la punibilità ai sensi dell’art. 385 c.p. al solo allontanamento che si protragga per più di dodici ore, come stabilito dall’art. 47-sexies, co. 2 e 4, l. n. 354 del 1975, sul presupposto, di cui all’art. 47-quinquies, co. 1, della medesima legge, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.
La Consulta ha ritenuto fondata, per violazione dell’art. 3 Cost., la questione sollevata dalla Corte d’appello di Firenze con riguardo alla disciplina degli allontanamenti dal domicilio applicabile al padre che si trovi in detenzione domiciliare “ordinaria”.
Come è noto, l’art. 47-ter, co. 1, lett. b), ord. penit. consente che, in caso di decesso o impossibilità assoluta della madre a dare assistenza alla prole di età inferiore ad anni dieci, la detenzione domiciliare sia concessa al padre. Al successivo co. 8 è stabilito che il condannato che si allontani dalla propria abitazione è punito ai sensi dell’art. 385 c.p., quale che sia la durata dell’allontanamento.
Con la sentenza n. 177 del 2009, la Corte ha già dichiarato costituzionalmente illegittime le disposizioni censurate, nella parte in cui punivano più severamente l’allontanamento dal domicilio della madre di minore di anni dieci ammessa alla detenzione domiciliare “ordinaria”, rispetto a quello della madre in detenzione domiciliare speciale. In quella pronuncia si era evidenziata l’identica finalità perseguita dal legislatore attraverso la disciplina delle due forme di detenzione domiciliare, quella “ordinaria”, quando concessa ai genitori di prole di età inferiore ai dieci anni con loro conviventi, e quella speciale. Entrambe le misure sono infatti indirizzate a consentire la cura dei figli minori, al contempo evitando l’ingresso in carcere dei minori in tenera età. Peraltro, a differenza della prima, solo la detenzione domiciliare speciale è accompagnata da una disciplina più flessibile in caso di ritardo nel rientro nel domicilio, proprio per venire incontro ai contingenti e imprevisti bisogni derivanti dalla cura dei bambini. Infatti, l’art. 47-sexies, co. 2, ord. penit. dispone che incorre nel reato di evasione, di cui all’art. 385, co. 1, c.p., la condannata ammessa al regime della detenzione domiciliare speciale che rimane assente dal proprio domicilio, senza giustificato motivo, per più di dodici ore. Questa disciplina più flessibile costituisce un tertium comparationis omogeneo e pertinente alla disciplina applicabile alla madre che si trovi in detenzione domiciliare “ordinaria” (sent. cost. n. 177 del 2009).
Nella decisione qui pubblicata, la Corte costituzionale ha ritenuto di estendere il medesimo ragionamento al raffronto del trattamento penale degli allontanamenti dal domicilio dei detenuti padri. Si è ribadito come sia priva di giustificazione, anche in relazione al padre che si trovi in detenzione domiciliare “ordinaria” per esigenze di cura della prole, la maggior severità del regime sanzionatorio previsto dalle disposizioni censurate. Inoltre, come già nella sentenza n. 177 del 2009, anche in questa pronuncia il Giudice delle leggi ha ritenuto indispensabile abbinare alla estensione del regime di maggior favore al padre in detenzione domiciliare “ordinaria” l’esplicita previsione della prognosi che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. Dunque, anche in occasione di questo intervento additivo, la Consulta non prescinde dalla necessità di introdurre in materia di detenzione domiciliare “ordinaria” il più sfavorevole requisito della prognosi di non recidiva, previsto dal legislatore per la detenzione domiciliare speciale (cfr. sent. cost. n. 239 del 2014, con nota di A.M. CAPITTA, Detenzione domiciliare per le madri e tutela del minore: la Corte costituzionale rimuove le preclusioni stabilite dall’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. ma impone la regola di giudizio, in questa Rivista, 2014, n. 3).