Con sentenza n. 99 del 20 febbraio 2019, in accoglimento della questione sollevata dalla Corte di Cassazione per contrasto con gli artt. 2, 3, 27 comma 3, 32 nonché 117 Cost. (in relazione all’art. 3 CEDU), la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della L. 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 della medesima disposizione.
Preliminarmente si ribadisce, sulla scia di quanto già fatto nelle sentenze 40/2019, 233/2018, 222/2018 e 236/206, che, per evitare zone franche immuni dal sindacato della stessa Corte, tanto più ove chiamata a occuparsi delle garanzie costituzionali di persone private della libertà personale e al contempo gravemente malate, non può essere di ostacolo all’esame della questione di legittimità l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione.
Nel merito - preso atto dell’inapplicabilità, nei confronti di questi soggetti: dell’art. 148 c.p., già fondato sul modello dell’internamento e superato da riforme legislative che pur senza disporne espressamente l’abrogazione l’hanno completamente svuotato di contenuto precettivo a seguito della chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici civili; dell’146, comma 1 n. 3 c.p. non integrando la grave patologia psichica il presupposto ivi previsto della malattia grave, in fase così avanzata da essere refrattaria alle terapie; dell’art. 147, comma 1 n. 2 c.p. che riguarda solo i casi di «grave infermità fisica»; delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) in quanto non destinate ad accogliere i condannati la cui malattia psichica si manifesti successivamente - la Corte rileva che, allo stato, un detenuto affetto da grave infermità psichica sopravvenuta con un residuo di pena superiore ai quattro anni, come la parte del giudizio a quo, non avrebbe accesso ad alcuna forma di esecuzione della pena alternativa alla detenzione in carcere. Ciò, a suo avviso, viola i medesimi principi costituzionali invocati nell’ordinanza di rimessione atteso che, come più volte già affermato in passato (sentenze n. 169/2017, 162/2014, 251/2008, 359/2003, 282/2002 e 167/1999) la “salute” di cui all’art. 32 Cost. comprende non solo quella fisica ma anche quella mentale alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela, potendo in tali casi assurgere il mantenimento di uno stato di detenzione persino a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU (come precisato dalla stessa Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105) ovvero a trattamento contrario al senso di umanità ai sensi dell’art. 27 comma 3 Cost.
Per ripristinare da subito un adeguato bilanciamento tra le esigenze della sicurezza della collettività e la necessità di garantire il diritto alla salute dei detenuti, la Corte opta, dunque, per un allargamento della detenzione domiciliare “umanitaria” previa una ricostruzione storica della misura come modalità di esecuzione della pena stessa (così già in sent. 327/1989), eventualmente anche in un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, in quanto rispondente a una logica unitaria e indivisibile (sent. 211/2018 e 177/2009) e comunque accompagnata da severe limitazioni della libertà personale. Non manca, infine, un monito al legislatore cui, essendo rimasta incompiuta la delega già conferita con L. 103/2017, spetta il dovere di portare a termine nel modo migliore la già avviata riforma dell’ordinamento penitenziario nell’ambito della salute mentale, con la previsione di apposite strutture interne ed esterne al carcere.