Con la sentenza n. 50 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, co. 1-bis, L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3, co. 1, e 27, co. 1 e 3, Cost., dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, nella parte in cui tale disposizione, prevedendo la detenzione domiciliare per l’espiazione della pena non superiore a due anni, anche se costituente residuo di maggior pena, quando non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare risulti comunque idonea a scongiurare il pericolo di commissione di altri reati, esclude l’applicabilità della stessa misura in caso di condanna per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit.
I dubbi di compatibilità costituzionale sollevati dalla Corte di cassazione si fondano su un primo punto fermo: la disposizione censurata, nel precludere ai condannati per uno dei reati elencati nell’art. 4-bis ord. penit. l’accesso alla detenzione domiciliare c.d. “infrabiennale”, introduce nel tessuto normativo una presunzione assoluta di pericolosità. Tale presunzione, come nel caso di specie, si palesa irragionevole – secondo la Corte rimettente – poiché, anche in riferimento al catalogo di cui all’art. 4-bis ord. penit., le modalità esecutive del reato potrebbero essere caratterizzate in concreto da ridotta offensività (es., uso di armi finte o da taglio), così come potrebbero mancare elementi indicativi di qualsivoglia collegamento con la criminalità organizzata. A sostegno dell’assunto, il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale che è orientata a escludere, in materia di benefici penitenziari, la legittimità di rigidi automatismi e di presunzioni assolute, tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base delle presunzioni stesse (sent. cost. n. 149 del 2018; n. 291 e 189 del 2010; n. 255 del 2006; n. 436 del 1999).
La Consulta ha tuttavia ritenuto che questo primo argomento, su cui si basano le censure della Corte di cassazione, non colga nel segno, in quanto solo in parte conferente alla disciplina censurata. La preclusione indicata dal rimettente, benché si fondi su una logica presuntiva correlata al titolo del reato commesso, si basa nel contempo su elementi che discendono dalla necessaria valutazione giudiziale del caso concreto. Il diniego di questa misura alternativa trova infatti fondamento in una prognosi sfavorevole sui futuri comportamenti dell’interessato, nonché in una contemporanea verifica della insussistenza delle condizioni utili per l’affidamento in prova ai sensi dell’art. 47 ord. penit.
Il secondo argomento addotto dal giudice a quo fa leva sulla contraddittorietà della disciplina censurata rispetto al quadro normativo in cui la stessa si inserisce. La Corte rimettente ha infatti evidenziato che il condannato per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit. può essere ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale, ove ne sussistano le condizioni, mentre non potrebbe mai fruire della detenzione domiciliare “infrabiennale”, nonostante quest’ultima misura abbia carattere maggiormente contenitivo e risulti dunque più idonea a fronteggiarne la residua pericolosità sociale. Questo paradossale divieto – secondo la Cassazione – si rivelerebbe contrario al principio di rieducazione e di progressività trattamentale, da attuarsi secondo un criterio di gradualità, come precisato, tra l’altro, dalla sentenza n. 149 del 2018.
Secondo la Corte costituzionale, neppure questo argomento sarebbe risolutivo.
Anzitutto, il Giudice delle leggi ritiene che la disciplina censurata non sia irragionevole, in quanto, nel suo complesso, essa non risulta insensibile alle opportunità di risocializzazione che sempre possono essere collegate a misure come l’affidamento in prova, la liberazione anticipata, la semilibertà, il lavoro esterno e i permessi premio, cui è consentito accedere in assenza di elementi dimostrativi del collegamento con il crimine organizzato (art. 4-bis, co. 2, ord. penit.). Invero, il soggetto scarsamente pericoloso che incontra la preclusione della detenzione domiciliare può tuttavia intraprendere altri percorsi trattamentali per certi versi più favorevoli della stessa custodia domestica.
Sul punto, la Corte ha chiarito: la disposizione censurata non contiene una presunzione assoluta di pericolosità del soggetto, quanto, se mai, una presunzione assoluta di inefficacia rieducativa e preventiva di una particolare misura, quale la detenzione domiciliare “ordinaria”. Tale presunzione, peraltro, non può considerarsi soltanto astratta, giacché trova fondamento concomitante in una valutazione giudiziale sfavorevole operabile nel caso concreto.
Inoltre, la Consulta ha negato che tra le varie misure alternative e i benefici possa essere costruita una sorta di graduatoria, secondo una scala ascendente di severità. E, dunque, non sarebbe fondata la pretesa di riscontrare corrispondenza assoluta tra livello di pericolosità del condannato e maggiore o minore “somiglianza” delle singole misure al contenimento estremo, assicurato dalla detenzione in carcere. Ciascun istituto in cui si declina l’esecuzione penale esterna presenta caratteristiche complesse, segnate da un particolare equilibrio tra strumenti contenitivi e di controllo e prescrizioni di contenuto rieducativo. L’affidamento in prova, per la duttilità della relativa disciplina, può in concreto assumere una fisionomia di marcata limitazione della libertà personale, come pure valorizzare al massimo grado le sue potenzialità in senso risocializzante. Per converso, la detenzione domiciliare può arricchirsi, sia pur con minore ampiezza, di prescrizioni che vadano oltre quelle strumentali alle basilari esigenze di vita dell’interessato e che siano funzionali al suo reinserimento sociale.
In definitiva, se nell’ambito dell’affidamento in prova può accadere che neppure prescrizioni particolarmente severe valgano in concreto a conseguire risocializzazione e, dunque, prevenzione, allora – ha concluso la Corte – la preclusione dell’accesso a una misura ancora meno articolabile, come la detenzione domiciliare, non presenta connotati di irragionevolezza e non viola il principio di finalizzazione rieducativa della pena.
Certo – ha osservato altresì la Consulta – nel quadro di una complessiva riforma delle misure alternative, è configurabile un diverso assetto dei presupposti per l’accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria”. Come ricordano i Giudici costituzionali, in sede di attuazione della legge delega Orlando (L. 23 giugno 2017, n. 103), era stato trasmesso alle Camere uno schema di decreto legislativo, mai varato, che eliminava, tra l’altro, la preclusione prevista dall’art. 47-ter, co. 1-bis, ord. penit. per i reati ostativi di cui all’art. 4-bis ord. penit. Come è noto, però, la parte della delega volta a facilitare il ricorso alle misure alternative non è stata più attuata dalla successiva compagine governativa.
Sotto il profilo delle opzioni di politica penitenziaria, la Corte considera opinabile questa scelta normativa, peraltro rientrante nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, ma sul piano del sindacato di legittimità costituzionale delle leggi, reputa la disposizione censurata non irragionevole in relazione al principio di responsabilità penale personale e alla necessaria finalità rieducativa della pena.