Con la sentenza n. 52 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato:
1) l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 30 e 31, co. 2, Cost., dell’art. 47-quinquies, co. 7, ord. penit., limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»;
2) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, co. 7, ord. penit., sollevate, in riferimento all’art. 2 Cost., dal Tribunale di sorveglianza di Bologna e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, nella parte in cui tale disposizione prevede che la detenzione domiciliare speciale può essere concessa al padre detenuto soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
3) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, co. 7, ord. penit., sollevate, complessivamente, in riferimento agli artt. 3, co. 1, 27, co. 3, 29, 30, 31, co. 2, e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via principale, e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, nella parte in cui tale disposizione prevede che la detenzione domiciliare speciale può essere concessa al padre detenuto soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
I rimettenti appuntavano le loro doglianze sul differente trattamento del padre e della madre condannati, quanto alle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale. Mentre la madre di figli di età non superiore a dieci anni, ovvero gravemente disabili, può essere ammessa alla misura una volta scontato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (art. 47-quinquies, co. 1, ord. penit.); ovvero anche prima di tale termine, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga» (art. 47-quinquies, co. 1-bis, ord. penit.), il padre può accedere alla medesima misura alternativa ai sensi del censurato co. 7 dell’art. 47-quinquies ord. penit., in presenza delle condizioni indicate nei co. 1 e 1-bis, ma soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
Entrambi i giudici a quibus hanno sollecitato la Corte a eliminare quest’ultimo inciso, mirando a equiparare le condizioni di accesso alla custodia domestica speciale per i detenuti padri e le detenute madri. Secondo i due tribunali, la differenza di trattamento tra madre e padre detenuto violerebbe il principio di uguaglianza tra sessi (art. 3, co. 1, Cost.) all’esterno e all’interno del matrimonio (art. 2 e art. 29, co. 2, Cost.), privilegiando irragionevolmente la posizione della madre rispetto a quella del padre. Inoltre, essa non consentirebbe di tutelare appieno gli interessi dei figli minori e di garantire il diritto di questi ultimi alla c.d. “bigenitorialità” (artt. 30 e 31 Cost.), privandoli indebitamente del rapporto con il padre.
In via subordinata, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha censurato il solo frammento normativo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
La Consulta ha anzitutto dichiarato l’inammissibilità delle questioni sollevate da entrambi i rimettenti in riferimento all’art. 2 Cost., ritenendole prive di motivazione sulla non manifesta infondatezza, quanto alle c.d. famiglie di fatto o omogenitoriali.
La Corte ha poi ritenuto infondate le questioni miranti all’integrale ablazione, nell’art. 47-quinquies, co. 7, ord. penit., dell’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».
Sul punto, il Giudice delle leggi ha confermato le considerazioni espresse nella recente sentenza n. 219 del 2023, là dove aveva ritenuto immune da censure, sotto il profilo della sua idoneità ad assicurare il rapporto del minore con uno almeno dei genitori, la disciplina risultante dall’art. 47-ter, co. 1, lett. a) e b), ord. penit., strutturalmente analoga alla disciplina qui censurata. Al proposito, la Corte ha precisato che «l’angolo visuale da cui muovono» le presenti censure è «rovesciato rispetto a quelle già esaminate dalla sentenza n. 219 del 2023: mentre le doglianze di allora erano formulate dalla prospettiva del minore e dei suoi preminenti interessi, le censure odierne si focalizzano, invece, sui doveri e diritti che fanno capo a ciascuno dei due genitori, che verrebbero disciplinati in modo ingiustificatamente differenziato dalla disposizione all’esame» (§ 5.2., Considerato in diritto). Dunque, in questa occasione, la Consulta si è chiesta specificamente se la scelta del legislatore di attuare in forma tanto avanzata i principi in questione con riferimento alle sole madri condannate crei, al metro della Costituzione e della CEDU, una illegittima discriminazione a danno dei padri condannati e, altresì, una violazione del principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi. Pur non mancando di rilevare una qualche distonia tra la norma censurata e lo stadio attuale del quadro ordinamentale – che tende ormai a riconoscere l’equivalenza delle due figure genitoriali rispetto ai compiti di cura, mantenimento ed educazione dei figli – la Corte ha affermato che la scelta adottata sin qui dal legislatore non possa essere considerata incompatibile con i parametri costituzionali e convenzionali evocati.
La Consulta ha infatti osservato come il legislatore abbia ritenuto di apprestare un trattamento di particolare favore per il rapporto tra la madre condannata e il bambino in tenera età, muovendosi in consonanza con l’obbligo di proteggere la maternità stabilito dall’art. 31, co. 2, Cost. Inoltre, ad avviso della Corte, l’opzione legislativa in questione non si pone in contrasto con il principio di parità morale e giuridica dei coniugi (art. 29, co. 2, Cost.) né con il divieto di discriminazione secondo il sesso nel godimento del diritto alla vita familiare, tutelato dagli artt. 8 e 14 CEDU.
Peraltro, la valutazione della legittimità costituzionale di trattamenti stabiliti dalla legge precipuamente in favore delle madri va operata, secondo la Corte, non sul piano dei rapporti tra i coniugi, ma su quello dei rapporti tra i genitori e i figli e, dunque, sempre dalla prospettiva della tutela del minore. In questo modo, nonostante le presenti doglianze fossero incentrate sul principio dell’uguaglianza tra i coniugi, il piano argomentativo viene qui nuovamente ribaltato e ricondotto a quello già affrontato nella sentenza n. 219 del 2023, vale a dire al principio dell’interesse primario del minore. Il livello minimo di tutela costituzionalmente necessario per gli interessi del minore – ha ribadito la Corte – è quello che assicura al bambino la presenza di almeno uno dei genitori. Pertanto, il Giudice delle leggi ha concluso che la scelta compiuta dal legislatore di assicurare la presenza anche della madre condannata a una pena detentiva, pur là dove il padre sia in condizione di farsi carico della cura e dell’educazione del minore, è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse all’esecuzione della pena detentiva – e quindi della pretesa punitiva dello Stato – e l’interesse del minore alla relazione genitoriale. Ciò anche in considerazione del limitato impatto della misura sulla popolazione carceraria complessiva, composta solo per il 4 per cento da detenute donne. In definitiva, secondo la Corte, la scelta normativa in questione – che comunque non deborda nella discriminazione ingiustificata – riconosce al minore un livello addizionale di tutela, non costituzionalmente obbligato, ma certamente attuativo dei principi costituzionali. Spetterà poi al giudice di sorveglianza verificare se il concetto di “impossibilità” della madre di prendersi cura del figlio possa essere esteso, in via interpretativa, anche a situazioni in cui l’eccezionalità del carico connesso ai doveri di cura renda inesigibile che la sola madre vi faccia efficacemente fronte, in relazione ad esempio alle gravi patologie di cui il minore soffra e alle sue necessità di continua assistenza.
La Corte ha precisato che resta in ogni caso riservata alla discrezionalità del legislatore la valutazione della opportunità di una estensione della misura a tutti i detenuti, padri e madri, non socialmente pericolosi.
La Consulta ha invece ritenuto fondate le censure, formulate in via subordinata dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, concernenti il solo frammento normativo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre». A differenza di quanto previsto dall’art. 47-ter, co. 1, lett. b), ord. penit., la disposizione censurata subordina la concessione al padre della misura alternativa speciale alla indisponibilità non soltanto della madre, ma anche di «altri» soggetti ai quali vi sia modo di affidare la prole. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di questa locuzione normativa, la Corte ha dunque allineato la disciplina della detenzione domiciliare speciale a quella della detenzione domiciliare “ordinaria”, evidenziando l’identità di ratio tra le due forme di custodia domestica.
È questa la parte più significativa della pronuncia in esame: risulta lesiva degli interessi preminenti del minore la scelta legislativa di precludere al padre condannato l’accesso alla detenzione domiciliare anche quando la madre sia morta o impossibilitata a provvedere alla cura dei figli minori, ma questi possano essere accuditi da terze persone. Così concepita, la norma impedisce infatti ai minori in tenera età di fruire della relazione continuativa con almeno uno dei genitori, che in linea di principio deve essere loro assicurata. Infine, la Corte ha ribadito che resta comunque fondamentale la verifica da parte del tribunale di sorveglianza che non vi sia pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte del padre condannato e che il ripristino della sua convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi, alla cui tutela è finalizzata la misura della detenzione domiciliare speciale.