Con la sentenza n. 111 del 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato:
1) l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 24 Cost., dell’art. 64, co. 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p.;
2) l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 24 Cost., dell’art. 495, co. 1, c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, co. 3, c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni;
3) non fondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 495 c.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nella parte in cui tale disposizione si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.
Il Tribunale rimettente ha auspicato che il diritto al silenzio – diversamente da quanto emerge dal diritto vivente – debba essere garantito non solo con riferimento alle domande relative al fatto di cui la persona sottoposta a indagini o imputata è accusata, ma anche alle domande relative alle circostanze personali di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p., al di fuori delle generalità in senso stretto: e cioè, tra l’altro, se la persona abbia un soprannome, quali siano le sue condizioni patrimoniali, familiari e sociali, se eserciti uffici o servizi pubblici o ricopra cariche pubbliche e, ancora, se sia sottoposto ad altri processi penali o se abbia riportato condanne penali.
La Consulta ha ritenuto che l’attuale assetto del diritto vivente non assicuri sufficiente tutela al diritto al silenzio, quale corollario del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost, dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Ad avviso della Corte, il diritto costituzionale al silenzio si estende anche alle domande di carattere personale elencate all’art. 21 disp. att. c.p.p.
Al riguardo, nella sentenza in esame viene precisato che il diritto al silenzio entra necessariamente in gioco allorché l’autorità procedente ponga alla persona sottoposta a indagini o imputata domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta. Tale situazione si verifica, appunto, rispetto alle domande indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p., che concernono condizioni personali del sospettato o dell’imputato, la cui conoscenza da parte dell’autorità può generare conseguenze per lui pregiudizievoli nel corso del procedimento penale ovvero ai fini della condanna e della commisurazione della pena. Rispetto alla generalità di queste circostanze – di cui la Corte fornisce anche qualche esempio (§ 3.5.1.) – la dimensione costituzionale del diritto al silenzio osta a che possa ravvisarsi un dovere della persona indagata o imputata di fornire le relative informazioni all’autorità che procede, non configurandosi in capo alla persona medesima alcun obbligo di collaborare nelle indagini e nel processo a proprio carico.
Il Giudice delle leggi avverte che, invece, la disciplina vigente, così come interpretata dalla Corte di cassazione, non è tale da garantire un’adeguata tutela al diritto al silenzio. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, infatti, non si richiede che la persona venga avvertita della facoltà di non rispondere prima che le vengano rivolte le domande indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. e, d’altra parte, nulla vieta che le dichiarazioni rese in risposta a tali domande possano essere utilizzate contro il dichiarante nel corso del procedimento e poi del processo penale (Cass., Sez. V, 8 luglio 2022, n. 26440, Rv. 283426; Id., Sez. II, 10 novembre 2020, n. 31463; Id., Sez. VI, 13 ottobre 2016, n. 43337; Id., Sez. V, 16 settembre 2015, n. 37571, Rv. 264944; Id., Sez. V, 26 giugno 2013, n. 28020). Ne deriva che – osserva la Corte – la persona interessata non è posta in grado di esercitare consapevolmente il proprio diritto al silenzio e non è in alcun modo tutelata allorché tale diritto sia stato violato. In ciò si concreta il vulnus all’art. 24 Cost.
Ciò posto, la Consulta ha dichiarato, in prima battuta, non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 c.p., prospettate in via principale dal Tribunale di Firenze, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto ha reputato il rimedio individuato con tali questioni, per un verso, eccedente lo scopo e, per un altro verso, insufficiente rispetto allo stesso scopo (§ 4). Eccedente lo scopo, in quanto, per il rimettente, sarebbe in gioco un mero imperativo di coerenza del legislatore nel declinare la tutela del diritto di cui all’art. 24 Cost., che risulterebbe rilevante sotto il profilo dell’art. 3 Cost.: una volta che il legislatore abbia ritenuto che le esigenze di tutela del diritto al silenzio escludano la punibilità delle dichiarazioni di chi abbia detto il falso alle autorità nel tentativo di difendersi, sarebbe costituzionalmente insostenibile la differenza di trattamento fra situazioni analoghe, quali le dichiarazioni relative al fatto di reato e quelle relative alle circostanze personali del suo possibile autore. A parere della Corte, tuttavia, le esigenze di coerenza interna al sistema non possono spingersi sino a precludere al legislatore l’adozione di soluzioni differenziate in relazione a situazioni pur riconducibili all’area del diritto al silenzio, ma fra loro non del tutto omogenee. Per altro verso, il rimedio indicato sarebbe – secondo la Corte – inadeguato rispetto allo scopo di assicurare la conformità a Costituzione del sistema normativo e giurisprudenziale, giacché esso interviene soltanto sul versante della punibilità delle false dichiarazioni e non su quello, che ne costituisce un prius logico e cronologico, dell’imposizione alle autorità procedenti dell’obbligo di avvisare la persona interrogata della facoltà di non rispondere anche alle domande di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p.
Le questioni formulate dal rimettente in via subordinata sono invece state dichiarate fondate (§ 5).
È questa la parte della decisione che desta maggiore interesse, a mente del vulnus all’art. 24 Cost. già riscontrato dalla Corte (§ 3.5.).
Quanto alla prima censura, avente a oggetto l’art. 64, co. 3, c.p.p., in riferimento all’art. 24 Cost., la Consulta ha rilevato che, per garantire una tutela effettiva del diritto al silenzio sul piano processuale, occorre che l’indagato o l’imputato sia debitamente avvertito, segnatamente, del proprio diritto di non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle relative alle proprie generalità, nonché della possibilità che le sue eventuali dichiarazioni siano utilizzate contro di lui. Per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 64, co. 3, c.p.p. – nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p. – le relative dichiarazioni rese dagli interessati che non abbiano ricevuto tali avvertimenti resteranno, ai sensi dell’art. 64, co. 3-bis, c.p.p., non utilizzabili nei loro confronti.
È stata altresì accolta dalla Corte la questione concernente l’art. 495 c.p., prospettata anch’essa in via subordinata e in riferimento all’art. 24 Cost. Come si sottolinea nella sentenza qui pubblicata, la punibilità delle false dichiarazioni relative alle «qualità della propria o dell’altrui persona» ai sensi dell’art. 495 c.p. deve ritenersi non in contrasto con l’art. 24 Cost. soltanto ove la persona sottoposta alle indagini o imputata abbia previamente ricevuto l’avvertimento circa il suo diritto a non rispondere ai sensi dell’art. 64, co. 3, c.p.p., restando libero il legislatore di valutare eventualmente se estendere la non punibilità anche all’ipotesi in cui l’interessato, avendo ricevuto l’avvertimento, renda comunque false dichiarazioni. Per garantire il diritto al silenzio è pertanto necessario, sotto un profilo sostanziale, escludere la punibilità dell’indagato o dell’imputato che abbia dichiarato il falso in merito a informazioni di carattere personale, quando non sia stato debitamente avvertito della facoltà di non rispondere.