Con la sentenza n. 25 del 2024, depositata il 26 febbraio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 95, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della L. 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 Cost., dal Tribunale ordinario di Marsala, nella parte in cui tale disposizione non consente di presentare al giudice dell’esecuzione, entro trenta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza, istanza di applicazione di una delle pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis c.p. «ai condannati a pena detentiva non superiore a quattro anni nei confronti dei quali, al momento dell’entrata in vigore del succitato decreto, pendeva dinanzi alla Corte di appello il termine per il deposito della sentenza».
La disciplina transitoria di cui al secondo periodo dell’art. 95, d.lgs. n. 150 del 2022 – che prevede la possibilità per il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni di ottenere la sostituzione della pena mediante l’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 666 c.p.p., una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna – è testualmente riferita soltanto ai processi «pendenti innanzi la Corte di cassazione»: espressione che, secondo il significato letterale delle parole, non è riferibile a processi non ancora approdati presso la Corte di cassazione, e i cui atti si trovassero, al momento dell’entrata in vigore della riforma, presso la Corte d’appello che ha pronunciato la sentenza.
Secondo il rimettente, la disposizione censurata sarebbe affetta da una lacuna involontaria, non avendo disciplinato l’ipotesi in cui la Corte d’appello – alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022 – avesse già definito il giudizio innanzi a sé mediante la pronuncia del dispositivo in udienza, ma fosse ancora pendente il termine per il deposito della motivazione (ovvero, avesse depositato la motivazione, ma fosse ancora pendente il termine per il ricorso in cassazione).
La Consulta ha rilevato che, se quella assunta dal rimettente fosse l’unica interpretazione possibile della disciplina censurata, essa risulterebbe in evidente frizione con il principio di eguaglianza, non essendo ravvisabile alcuna ragione giustificatrice della differenza di trattamento rispetto alle altre ipotesi ivi disciplinate e, in particolare, a quella in cui il processo già pendesse innanzi alla Corte di cassazione.
Successivamente all’ordinanza di rimessione – come rammenta la Corte costituzionale – la giurisprudenza di legittimità ha avuto occasione di chiarire che, ai fini dell’applicabilità del regime transitorio previsto dall’art. 95, d.lgs. n. 150 del 2022, deve considerarsi «pendente innanzi la Corte di cassazione» qualsiasi processo che, alla data di entrata in vigore della riforma, fosse stato definito dalla Corte d’appello mediante la pronuncia del dispositivo: e, dunque, anche quei processi nei quali sia ancora pendente il termine fissato dal collegio per il deposito delle motivazioni (Cass., Sez. IV, 2 novembre 2023, n. 43975, Lombardi, Rv. 285228), ovvero nei quali sia pendente il termine per il ricorso per cassazione (Cass., Sez. V, 8 settembre 2023, n. 37022, Rv. 285229; Id., Sez. VI, 2 agosto 2023, n. 34091, Rv. 285154).
Sulla scorta di un precedente costituito da una sentenza delle Sezioni unite (Cass., Sez. un., 10 dicembre 2009, n. 47008, Rv. 244810) sulla disciplina transitoria stabilita dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. “legge ex Cirielli”) – la quale circoscriveva l’applicazione retroattiva della più favorevole disciplina in materia di prescrizione ai processi pendenti in primo grado – la Corte di cassazione, in queste pronunce, muove dalla constatazione che il codice di rito non contiene alcuna norma che individui il fatto o l’atto processuale che determina la “pendenza” del giudizio di impugnazione.
Secondo la Consulta, le pronunce appena menzionate possono già essere ritenute espressive del diritto vivente relativo all’interpretazione, costituzionalmente conforme, della disposizione scrutinata.
A giudizio della Corte, tale interpretazione – che coincide con il risultato auspicato dal giudice a quo – si sottrae a tutte le censure di legittimità costituzionale formulate dal rimettente. Essa assicura infatti uniformità di trattamento a tutti gli imputati i cui processi fossero ancora pendenti all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022 e consente loro di accedere alle più favorevoli pene sostitutive di cui al nuovo art. 20-bis c.p., spiccatamente orientate alla rieducazione del condannato, evitando al contempo qualsiasi vulnus al diritto di difesa.
La Corte ha, infine, ribadito che la norma in questione deve considerarsi frutto di una interpretazione analogica, non preclusa tuttavia dal carattere transitorio della disposizione censurata, giacché tale disposizione è espressione di un principio generale di rango costituzionale: quello secondo cui le norme più favorevoli in materia di sanzioni punitive devono, di regola, essere applicate retroattivamente a tutti i processi in corso.
Pertanto, a fronte di un diritto vivente che ha già estratto dalla disposizione censurata una norma non incompatibile con i parametri costituzionali evocati, la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal rimettente.