Con la sentenza n. 173 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, co. 1 e 2, c.p.p., come modificato dall’art. 12, co. 1, lett. d), n. 1) e 2), L. 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., dal G.i.p. del Tribunale di Modena, nella parte in cui tale disposizione, disciplinando la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, «non consente al giudice, tenuto conto di tutte le specificità del caso concreto e motivando sulle stesse, di stabilire una distanza inferiore a quella legalmente prevista di 500 metri» e al contempo «prevede che, qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle modalità di controllo, il giudice debba necessariamente imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi, senza, invece, possibilità di valutare e motivare, pur garantendo le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., la non necessità di applicazione del dispositivo elettronico di controllo nel caso concreto».
Secondo il rimettente, la rigidità applicativa delle disposizioni censurate impedirebbe al giudice di adeguare la misura coercitiva alle esigenze cautelari della fattispecie concreta, sicché le disposizioni stesse, per un verso, travalicherebbero i limiti della ragionevolezza e della proporzione, quali corollari del principio di uguaglianza, e, per altro verso, invaderebbero la riserva di giurisdizione concernente la restrizione della libertà personale dell’indagato.
La Consulta ha anzitutto ricordato che il braccialetto elettronico è un importante dispositivo funzionale alla tutela delle persone vulnerabili rispetto ai reati di genere: nel divieto di avvicinamento, in particolare, esso è un presidio bidirezionale che, in caso di avvicinamento vietato, allerta non solo le forze dell’ordine, ma anche la persona offesa, dotata di apposito ricettore.
Ad avviso della Corte, la distanza minima di cinquecento metri indicata dalla norma non appare in sé esorbitante e corrisponde alla finalità pratica del tracciamento di prossimità, che è quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla persona minacciata per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso. A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato – ha affermato la Corte – si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue.
Con riguardo, poi, alla riscontrata impossibilità di funzionamento tecnico del dispositivo elettronico, quale effetto di un dato oggettivo non imputabile all’indagato, la Consulta ha evidenziato come la disposizione censurata possa essere interpretata in senso costituzionalmente adeguato. In tal caso, infatti, secondo la Corte, il giudice non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di adeguatezza e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (quale il divieto o l’obbligo di dimora), ma anche una misura più lieve (segnatamente, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria).
In definitiva, come per l’ipotesi di indisponibilità del braccialetto elettronico negli arresti domiciliari, anche per il caso di impossibilità tecnica del controllo remoto nel divieto di avvicinamento, occorre una rivalutazione giudiziale della fattispecie concreta in aderenza alle regole comuni di idoneità, necessità e proporzionalità, senza che possa subentrare alcun automatismo cautelare né a favore dell’indagato, né a suo sfavore.