Con la sentenza n. 124 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 603, co. 3-bis, c.p.p., introdotto dall’art. 1, co. 58, L. 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), sollevate – in riferimento agli artt. 111, co. 2 e 4 [rectius: 5], e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 20, Direttiva 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI – dalla Corte d’appello di Trento, nella parte in cui tale disposizione, così come interpretata dal diritto vivente, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, obbliga il giudice a disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale anche in caso di giudizio di primo grado celebrato nelle forme del rito abbreviato, e pertanto definito in quella sede «allo stato degli atti» ai sensi degli artt. 438 e ss. c.p.p.
La Consulta, anzitutto, non ha ravvisato alcun contrasto tra la disposizione censurata e il principio della ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111, co. 2, Cost. Tale principio va infatti contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, sicché il suo sacrificio non è sindacabile, ove sia frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa (ex plurimis, sent. cost. n. 159 del 2014, ord. cost. n. 332 e n. 318 del 2008). E la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale imposta dal novellato art. 603, co. 3-bis, c.p.p., così come interpretato dal diritto vivente, determina sì una dilatazione dei tempi di trattazione del giudizio di appello, ma non può certo essere ritenuta sfornita di alcuna ratio giustificativa, poiché, anche nell’ambito di un giudizio che nasce come meramente “cartolare”, come il rito abbreviato, la necessità di un contatto diretto del giudice con i testimoni è imposta dalla esigenza di far cadere l’«implicito dubbio ragionevole determinato dall’avvenuta adozione di decisioni contrastanti» (Cass., Sez. un., 14 aprile 2017, Patalano, n. 18620, in Mass. Uff., n. 269785); dubbio che secondo le Sezioni unite è possibile superare soltanto attraverso la «forza persuasiva superiore» della motivazione del giudice d’appello, fondata per l’appunto sull’ascolto diretto delle testimonianze decisive (Cass., Sez. un., 3 aprile 2018, Troise, n. 14800, in Mass. Uff., n. 272431).
In secondo luogo, la Corte ha ritenuto che non sussista alcun contrasto tra la disposizione impugnata e l’art. 111, co. 5, Cost., il quale si limita a consentire che la prova possa in casi eccezionali formarsi al di fuori del contraddittorio, ma non prescrive affatto, come invece assume il giudice a quo, che – una volta che l’imputato abbia prestato il proprio consenso a essere giudicato «allo stato degli atti» – una tale modalità di giudizio debba necessariamente valere per ogni fase del processo, compresa quella di appello.
In terzo luogo, appare infondata – secondo il Giudice delle leggi – la censura formulata con riferimento all’art. 111, co. 2, Cost., sotto il distinto profilo del vulnus che la disposizione in esame arrecherebbe al principio della parità delle parti nel processo. Invero, come dimostra puntualmente la Consulta, l’art. 603, co. 3-bis, c.p.p. non introduce alcuno squilibrio tra i poteri processuali delle parti.
Infine – ha concluso la Corte costituzionale – non è fondata neppure la censura formulata con riferimento all’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 20 della direttiva 2012/29/UE, la quale prescrive che il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo. Da un lato, infatti, tale prescrizione fa comunque salvi i diritti della difesa, dall’altro lato, essa riguarda la sola fase delle «indagini penali», corrispondenti alle nostre indagini preliminari, e non si estende dunque alla fase del processo.