Con l’ordinanza n. 28 del 2023, depositata il 23 febbraio 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 429, co. 2-bis, c.p.p., in combinato disposto con l’art. 458 c.p.p., nella parte in cui consente che a celebrare il giudizio abbreviato sia un giudice che, per limiti funzionali, non può ritenersi “terzo e imparziale” e in quanto “non soggetto soltanto alla legge”, nonché dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio abbreviato del giudice individuato a norma della disposizione di cui all’art. 458 c.p.p., che per le limitazioni derivanti dall’art. 438, co. 1 bis, c.p.p. e per l’impossibilità di fare applicazione dell’art. 521 c.p.p. non può essere considerato “terzo e imparziale”, sollevate, in riferimento complessivamente agli artt. 101, co. 2, 111, co. 2 e 6, e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, par. 1, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna.
La Consulta ha ritenuto le questioni sollevate manifestamente inammissibili per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, risulterebbe del tutto oscuro il risultato cui il giudice a quo aspira in conseguenza dell’auspicata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate. Secondo il rimettente, infatti, tali disposizioni consentono che il giudizio abbreviato introdotto in forza del combinato disposto degli artt. 429, co. 2-bis, e 458 c.p.p. sia celebrato da un giudice che non potrebbe dirsi terzo e imparziale, né soggetto soltanto alla legge – in quanto vincolato alla decisione del precedente G.u.p. cristallizzata nel decreto che dispone il giudizio –, e che non potrebbe, allo stato, dichiararsi incompatibile ai sensi dell’art. 34 c.p.p. Tuttavia, come rileva la Corte, il rimettente non ha illustrato in alcun modo quale altro giudice, non soggetto a tale vincolo, dovrebbe essere competente a giudicare in suo luogo. D’altra parte, il rimettente neppure ha mirato a una pronuncia costituzionale che gli poteva consentire di sottrarsi alla pretesa vincolatività della statuizione del G.u.p. in ordine alla qualificazione del fatto e di decidere, così, egli stesso sulla responsabilità dell’imputato, riqualificando il fatto in maniera diversa da come risultava dal decreto che dispone il giudizio. Osserva infatti la Consulta che il secondo petitum formulato dal rimettente è rivolto, invece, inequivocabilmente a una pronuncia che consenta al medesimo di dichiararsi incompatibile a giudicare della responsabilità penale dell’imputato.
Pertanto, secondo i giudici costituzionali, le questioni sollevate, esaminate nel loro complesso, sfociano in petita oscuri e contraddittori, e già per tale motivo sono state considerate manifestamente inammissibili (v., ex multis, sent. cost. n. 20 del 2022 e n. 168 del 2021).
In secondo luogo, la Corte ha reputato che i parametri costituzionali e convenzionali evocati a sostegno delle censure siano inconferenti rispetto ai pretesi vulnera, così come argomentati nell’ordinanza di rimessione. Infatti, il principio di terzietà e imparzialità del giudice esclude che possa giudicare di una controversia un giudice che abbia un interesse proprio nella causa (sent. cost. n. 155 del 1996), ovvero che abbia già precedentemente svolto funzioni decisorie nella stessa causa: preclusione, quest’ultima, finalizzata a evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (v., ex plurimis, sent. cost. n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022, n. 183 del 2013 e n. 153 del 2012). Ma tale principio, come ha ricordato il Giudice delle leggi, non è mai stato evocato – né dalla giurisprudenza costituzionale, né da quella della Corte EDU – in relazione ad allegati vincoli alla potestas iudicandi derivanti dalle decisioni di altri giudici intervenuti nella medesima causa. La Corte ha altresì rilevato che nemmeno il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, sancito dall’art. 101, co. 2, Cost., appare congruo rispetto alla sostanza del vulnus lamentato. Invero, non si è mai ritenuto che il principio dell’indipendenza “interna” del giudice osti a che la sua potestas decidendi sia delimitata, in conformità alla legge processuale vigente, da provvedimenti di altri giudici: non si produce un vulnus all’art. 101, co. 2, Cost. nel caso in cui un giudice sia vincolato alla decisione di altro giudice, come accade per esempio al giudice del rinvio rispetto al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione. Più in generale, la Consulta ha escluso che possa sussistere una violazione dell’art. 101, co. 2, Cost. in presenza di vincoli alla potestas iudicandi del singolo giudice stabiliti dalla legge processuale, che è anch’essa parte integrante di quella “legge” a cui il giudice è soggetto proprio in forza della previsione costituzionale in discorso.
La palese inconferenza dei parametri evocati dal rimettente si traduce perciò – secondo la Corte costituzionale – in una ulteriore ragione di manifesta inammissibilità delle questioni prospettate (v., nell’ambito di giudizi in via principale, sent. cost. n. 259 e n. 23 del 2022; nell’ambito di giudizi in via incidentale, sent. cost. n. 172 del 2021 e ord. cost. n. 69 del 2021).