Con la sentenza n. 252 del 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 13, co. 2, e 14, co. 2, Cost., dell’art. 103, co. 3, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate; ha dichiarato, inoltre, la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, co. 2, e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, nella parte in cui tale disposizione – secondo l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, qualificabile come diritto vivente – non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge riguardi anche gli esiti probatori, compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione e ispezione domiciliare e personale compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dai casi tassativamente previsti dalla legge ovvero non convalidati, comunque sia, dal pubblico ministero con provvedimento motivato.
Per quanto concerne le censure aventi ad oggetto l’art. 191 c.p.p., la Consulta ha richiamato una sua precedente decisione – la sentenza n. 219 del 2019 – nella quale si era pronunciata su questioni sovrapponibili a quelle ora sottoposte al suo esame (cfr. la scheda: Inutilizzabilità derivata – Corte cost., n. 219 del 2019, in questa Rivista online, Giurisprudenza costituzionale, 2019). In quella occasione, infatti, la Corte aveva escluso la possibilità di trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che l’art. 185, co. 1, c.p.p. contempla esclusivamente in relazione alle nullità. Il petitum del rimettente – hanno ricordato i giudici costituzionali – risultava fondato sulla richiesta di una pronuncia fortemente “manipolativa”, in una materia in cui, tra l’altro, vige un rigoroso regime di tipicità e tassatività. Il giudice a quo, richiamandosi alla teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, aveva mirato a introdurre un nuovo caso di inutilizzabilità della prova acquisita mediante perquisizione illegittima, al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali. Con ciò, il rimettente avrebbe richiesto al Giudice delle leggi l’esercizio di opzioni di politica processuale riservate alla discrezionalità del legislatore. La Corte ha ritenuto che le medesime considerazioni valgano anche in rapporto alle censure qui formulate dal medesimo giudice salentino e, quindi, ha dichiarato le questioni manifestamente inammissibili.
Una pronuncia additiva si è invece concretata con riguardo alla questione concernente l’art. 103, co. 3, d.P.R. n. 309 del 1990 (T.u. stupefacenti). La disposizione censurata si inserisce nel quadro di una disciplina speciale, volta a conferire alla polizia giudiziaria poteri più ampi rispetto a quelli ordinari, allo scopo di prevenire e reprimere il traffico illecito di stupefacenti: l’art. 103, co. 3, d.P.R. n. 309 del 1990 stabilisce che la polizia giudiziaria, qualora non possa per motivi di urgenza richiedere l’autorizzazione telefonica al magistrato competente, è legittimata a procedere a perquisizione, dandone notizia entro quarantotto ore al pubblico ministero, il quale, se ne ricorrono i presupposti, convalida l’atto entro le successive quarantotto ore. Dunque, questa previsione consente anche una perquisizione di polizia giudiziaria autorizzata oralmente, senza un decreto motivato e senza necessità di convalida. In quest’ottica – ha affermato la Consulta – la norma censurata si rivela incompatibile con le garanzie stabilite dagli artt. 13, co. 2, e 14, co. 2, Cost., secondo cui, tra l’altro, le perquisizioni personali e domiciliari possono essere disposte solo «per atto motivato» dell’autorità giudiziaria. L’autorizzazione telefonica – secondo la Corte – non è parificabile all’atto motivato, poiché, appunto, non soddisfa il requisito della motivazione, funzionale alla tutela della persona che subisce una limitazione dei suoi diritti fondamentali.
Al fine di porre rimedio al vulnus riscontrato, la Corte ha cercato una soluzione tra quelle prospettabili come “costituzionalmente adeguate” (sent. cost. n. 99 del 2019), pur nel rispetto della facoltà del legislatore di intervenire con scelte diverse (sent. cost. n. 40 del 2019; n. 233, n. 222 e n. 41 del 2018).
Nella specie, la soluzione ritenuta più coerente con la vigente disciplina è stata quella di richiedere che anche la perquisizione autorizzata telefonicamente debba essere convalidata, entro il doppio termine delle quarantotto ore.
La Consulta ha riconosciuto un apparente elemento di anomalia nel fatto che il pubblico ministero sia chiamato a convalidare un atto da lui stesso previamente autorizzato. Tuttavia, la convalida si rende necessaria e deve essere resa con provvedimento motivato, per far sì che la disciplina censurata risulti conforme a Costituzione. Infatti, è vero che, per i provvedimenti provvisori adottati in casi eccezionali di necessità ed urgenza, l’art. 13, co. 3, Cost. non contiene un espresso riferimento all’atto motivato, ma – ha concluso la Corte – l’esigenza della motivazione anche della convalida deve ritenersi implicita nel dettato costituzionale, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dall’art. 13 Cost.