Con la sentenza n. 66 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, co. 2, c.p.p., sollevata, in riferimento all’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 6, par. 1, Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Napoli, nella parte in cui tale disposizione non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare del giudice che, avendo ravvisato, nel corso della stessa udienza preliminare, un fatto diverso da quello contestato, abbia invitato il pubblico ministero a procedere, nei confronti dello stesso imputato e per il medesimo fatto storico, alla modifica dell’imputazione, invito al quale il pubblico ministero abbia aderito.
A poco più di due anni dalla sentenza n. 18 del 2017, la Consulta torna a pronunciarsi sulla tematica relativa al controllo dell’imputazione da parte del giudice dell’udienza preliminare, con specifico riguardo all’ipotesi di accertamento della diversità del fatto. Ma questa volta il parametro invocato dal giudice a quo è differente rispetto a quello che aveva riguardato la precedente e identica questione sottoposta all’esame della Corte: prima, il dubbio di legittimità costituzionale era stato prospettato in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., ora, invece, in riferimento all’art. 117, co. 1, Cost., a sua volta, in relazione all’art. 6, par. 1, CEDU. L’odierna declaratoria di infondatezza si è basata, dunque, su argomenti diversi da quelli utilizzati nella precedente occasione.
Il Giudice delle leggi è stato chiamato, in questo caso, a verificare la presenza o meno di una consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ravvisi la carenza di imparzialità dell’organo giudicante in fattispecie analoghe a quella oggetto del suo esame.
In primo luogo, la Consulta ha osservato come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia escluso che le garanzie in tema di equo processo, di cui all’evocato art. 6, par. 1, CEDU, siano riferibili all’udienza preliminare prevista dalla legge processuale italiana, fatto salvo il caso in cui vengano adottati riti alternativi che conferiscano al giudice di tale udienza il potere di pronunciarsi sul merito delle accuse. Nel giudizio principale, peraltro, non vi era stata alcuna richiesta di riti alternativi.
Inoltre, quanto all'imparzialità oggettiva del giudice, la Corte delle leggi ha rilevato che – anche se a livello europeo non si rinviene una teorizzazione corrispondente a quella operata dalle pronunce costituzionali, riguardo alla non configurabilità di un pregiudizio all’imparzialità del giudice in conseguenza di valutazioni effettuate nell’ambito della medesima fase processuale – non constano, in ogni caso, decisioni della Corte EDU che abbiano ravvisato la lesione del principio di imparzialità in fattispecie analoghe a quella in questione. Pertanto, secondo la Consulta, la norma convenzionale evocata non è tale da accordare al diritto della persona da giudicare, in rapporto alla specifica evenienza di cui si discute, una tutela più ampia di quella prefigurata dalla norma costituzionale interna – gemellare nell’ispirazione – di cui all’art. 111, co. 2, Cost.
Infine, con riguardo al profilo di asserito contrasto con la norma convenzionale legato alla commistione tra le funzioni del giudice e quelle del pubblico ministero, si è osservato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la confusione tra le funzioni inquirenti e giudicanti è effettivamente idonea a minare l’imparzialità del giudice in ipotesi di commistione particolarmente significativa. E il caso di specie era da ritenersi, ictu oculi, sensibilmente distante da un simile paradigma.
Per tutte queste ragioni, la Corte costituzionale ha concluso che – alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte europea – la disciplina nazionale oggetto di censura risulti in linea con il quadro delle garanzie apprestato dalla norma convenzionale.