Infortuni sul lavoro - Corte d'ass. d'app. Torino, 28 febbraio 2013, Esphenhahn e altri, con nota di C. Santoriello

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Non ricorre nullità in caso di mancata traduzione di documenti scritti in lingua diversa dall’italiano e sequestrati nel corso delle indagini preliminari per essere inseriti nel materiale istruttorio utilizzabile al fine della decisione.


Fra le ipotesi di obbligatoria traduzione dei documenti processuali espressamente indicate da diverse disposizioni codicistiche – come l’invito a comparire spedito all’imputato straniero residente o dimorante all’estero – o da disposizioni internazionali, rientra anche l’atto di cui all’art. 415-bis c.p.p., stante la rilevanza di tale avviso con il quale l’imputato è da un lato informato delle accuse che sono mosse nei suoi confronti e dall’altro informato sulle modalità con cui può difendersi dalle stesse; conseguentemente, la mancata traduzione del contenuto del predetto atto a vantaggio di un imputato che ignori la lingua italiana – circostanza che nel caso oggetto della decisione non è stata riscontrata, visto che si è ritenuto che i due imputati di lingua tedesca parlassero e comprendessero bene la lingua italiana – determina una nullità.


Sul Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, non grava alcuna posizione di garanzia, avendo tale soggetto compiti ben precisi di individuazione dei fattori di rischio, di elaborazione di misure preventive e protettive e di procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali; la eventuale inosservanza di tali compiti non costituisce di per sé reato perché essi sono inquadrabili nell’attività di consulente del datore di lavoro del R.S.P.P., che viene nominato fiduciariamente dal datore di lavoro e a cui fornisce tutto il proprio supporto tecnico per la realizzazione di quelli che rimangono obblighi prevenzionali del datore di lavoro.


In tema di individuazione del nesso di causalità fra inosservanza, addebitabile al datore di lavoro, delle norme antifortunistiche ed incidente ai danni del dipendente, tale nesso può dirsi interrotto a cagione di un comportamento del dipendente che possa qualificarsi come abnorme, ovvero che per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, e che tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli.


In tema di distinzione fra dolo eventuale e colpa cosciente, deve ritenersi sussistente l’elemento doloso quando risulti che l’agente avrebbe comunque agito, anche se avesse avuto la certezza della realizzazione della fattispecie e per accertare tale profilo può farsi riferimento al rapporto fra le conseguenze che verrebbero a determinarsi in caso di verificarsi dell’evento criminoso ed i vantaggi derivanti dall’assunzione della condotta vietata, dovendosi ritenere che in caso di eccessiva rilevanza delle conseguenze dannose e dei rischi relativi rispetto ai sperati benefici ricavabili dalla vicenda ricorra l’ipotesi di colpa cosciente.


L’art. 437 c.p. individua un reato di pericolo in cui il dolo dell’agente è costituito dalla consapevolezza di violare l’obbligo giuridico di installare un impianto destinato a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, così esponendolo al rischio del verificarsi di tali eventi. Si tratta di un dolo generico che non richiede proiezioni volitive per ciò che attiene agli eventi dannosi che la norma intende evitare e che sono del tutto eventuali. [...] L’aggravamento della pena, previsto nel caso in cui dall’omissione derivino disastri o infortuni, è esterno all'atteggiamento doloso e segue le regole dell’imputazione delle circostanze, in particolare l’art. 59, co. 2, c.p.