Con la sentenza n. 247 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato:
1) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, co. 2, 111 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 8 CEDU, dal Tribunale di Lecce, in composizione monocratica;
2) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 352 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 13 e 14 Cost., dal Tribunale di Lecce, in composizione monocratica;
3) non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 352 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 13, 14 e 111, co. 6, Cost., dal Tribunale di Lecce, in composizione monocratica;
4) non fondate le questioni di legittimità costituzione dell’art. 125, co. 3, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 13, 14 e 111, co. 6, Cost., dal Tribunale di Lecce, in composizione monocratica.
La Consulta torna a pronunciarsi sul tema delle inutilizzabilità “derivate”, con ben quattro declaratorie: due di inammissibilità e due di infondatezza delle questioni formulate dal Tribunale di Lecce.
Il giudice a quo ha censurato, in primo luogo, l’art. 191 c.p.p., nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – non prevede l’inutilizzabilità degli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni, domiciliari e personali, compiute dalla polizia giudiziaria fuori dei casi previsti dalla legge, compresi, fra tali esiti, il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato e la possibilità di deporre sui predetti atti e sui loro risultati. Il rimettente ha lamentato, altresì, che l’inutilizzabilità non colpisca anche gli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni operate dalla polizia giudiziaria, fuori del caso di flagranza di reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzate o convalidate dal pubblico ministero, ovvero convalidate dal pubblico ministero senza indicare gli elementi utilizzabili che le legittimavano, o non convalidate dal pubblico ministero per qualsiasi ragione.
Sulle censure aventi ad oggetto l’art. 191 c.p.p., la Corte ha anzitutto operato un distinguo tra questioni reputate del tutto identiche a precedenti questioni sollevate dal Tribunale salentino negli stessi giudizi e questioni già proposte dal medesimo giudice, ma che si connotano come nuove nelle loro componenti (norma censurata, profili di incostituzionalità dedotti, argomentazioni a sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale).
Le prime sono considerate notoriamente “precluse” nello stesso grado di giudizio – dopo una pronuncia di infondatezza della Corte – ai sensi dell’art. 137, ult. co., Cost., secondo cui contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione (sent. cost. n. 66 del 2019; n. 113 del 2011). In questo caso, la maggior parte delle questioni relative all’art. 191 c.p.p. sono state ritenute “precluse” e, di conseguenza, sono state dichiarate inammissibili “ante portas”, proprio in quanto la loro riproposizione si è tradotta, secondo la Corte, in una non consentita impugnazione della sentenza n. 252 del 2020.
Con questa decisione del 2020, la Consulta aveva dichiarato manifestamente inammissibili alcune questioni formulate dal medesimo giudice salentino e sovrapponibili, a loro volta, a questioni già dichiarate inammissibili con la sentenza n. 219 del 2019 (v. la scheda: Inutilizzabilità derivata – Corte cost., n. 219 del 2019, in questa Rivista online, Giurisprudenza costituzionale, 2019). Nelle pronunce richiamate, la Corte ha escluso la possibilità di trasferire nella disciplina della inutilizzabilità delle prove un regime di invalidità “derivata” che l’art. 185, co. 1, c.p.p. contempla esclusivamente in relazione alle nullità. Secondo i giudici costituzionali, il rimettente avrebbe richiesto, in entrambe le occasioni, una pronuncia fortemente “manipolativa” in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore, quale quella processuale, e con caratteristiche di eccezionalità, quale quella dei divieti probatori e delle clausole di inutilizzabilità processuale.
Le questioni riconducibili, invece, al secondo gruppo, sono state considerate “non precluse” e, dunque, riproponibili. Soltanto per due delle questioni concernenti l’art. 191 c.p.p. è stato ritenuto soddisfatto il requisito della novità: la questione sollevata in riferimento al parametro del giusto processo (non evocato dalle precedenti ordinanze), nonché quella proposta in riferimento al principio di eguaglianza, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi disciplinata dall’art. 103 c.p.p. (il parametro era già stato invocato, ma sotto altri profili). Tali questioni sono state, peraltro, dichiarate inammissibili per la medesima ragione sostanziale già posta in evidenza dalla Corte nelle proprie precedenti pronunce in materia (prima fra tutte, la sent. cost. n. 219 del 2019).
In particolare, si può segnalare che, sulla scia della recente ordinanza n. 116 del 2022, la questione proposta in riferimento al giusto processo (artt. 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU) è stata reputata dalla Consulta meramente rafforzativa della denuncia, già operata in precedenza dal giudice a quo, della violazione degli artt. 3 e 24 Cost. connessa alla «ridotta verificabilità» degli elementi sulla cui base la polizia giudiziaria ha proceduto alla perquisizione, che si assume derivare dal diritto vivente censurato. Al proposito, il Giudice delle leggi ha altresì ritenuto di non poter esaminare la tesi ricavabile dalla opinione scritta depositata, in veste di amicus curiae, dall’Unione delle camere penali italiane (UCPI), secondo la quale, alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sarebbe possibile decidere nel merito le questioni sollevate dal rimettente, senza effettuare interventi manipolativi sull’art. 191 c.p.p., ma semplicemente riconoscendo l’esistenza di un comando costituzionale minimo: quello, cioè, di consentire al giudice di rimuovere la prova acquisita a seguito della violazione di un diritto costituzionale o convenzionale, quando ciò risulti necessario per una tutela effettiva del diritto leso. Ad avviso della Corte, l’UCPI prospetterebbe una questione sostanzialmente diversa da quella sollevata dal giudice a quo, intesa a introdurre un inedito vizio di “inutilizzabilità derivata discrezionale”: ciò – si legge nella sentenza – a prescindere da ogni rilievo circa l’effettiva possibilità di ritenere imposto dalla giurisprudenza della Corte EDU un simile intervento e la genericità del criterio sulla cui base il giudice dovrebbe decidere sull’utilizzabilità della prova.
Il Giudice delle leggi ha parimenti dichiarato inammissibili le questioni relative all’art. 352 c.p.p., sollevate dal Tribunale di Lecce, nella parte in cui tale disposizione non prevede che, ove il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili. Nella sentenza qui pubblicata si sottolinea come il giudice a quo venga in tal modo a chiedere di nuovo, per altra via, di introdurre una figura di inutilizzabilità “derivata”, cosa che la Corte ha già riscontrato di non poter fare.
Per quanto riguarda, poi, le censure concernenti il medesimo art. 352 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il decreto del pubblico ministero che convalida la perquisizione debba essere motivato, la Consulta è entrata nel merito delle questioni, dichiarandole infondate, sulla base di una esegesi dell’art. 13, co. 3, Cost. (e, in questo caso, anche dell’art. 352, co. 4, c.p.p., nel testo precedente al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), secondo cui è necessaria la motivazione del decreto di convalida di un provvedimento provvisorio adottato in caso eccezionale di necessità e urgenza, quale la perquisizione di polizia giudiziaria (cfr., sent. cost. n. 252 del 2020).
Infine, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni dell’art. 125, co. 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che la nullità del decreto di convalida della perquisizione (si sottintende, per difetto di motivazione) sia di natura assoluta. Il Giudice delle leggi ha infatti osservato che, nella specie, si verte in tema di disciplina degli istituti processuali, materia nella quale – ha ribadito – il legislatore gode di ampia discrezionalità, nei limiti della non manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle soluzioni adottate: il che vale anche quanto alla scelta del tipo di nullità con cui sanzionare una determinata violazione processuale.