Con la sentenza n. 74 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, co. 2, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nella parte in cui tale disposizione non prevede l’incompatibilità del g.i.p. che abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna, per ritenuta illegalità della pena proposta dal pubblico ministero, a pronunciarsi su una nuova richiesta di decreto penale, avanzata da quest’ultimo in ragione dei rilievi del medesimo giudice.
Il rimettente ha richiesto, con riferimento alla fattispecie verificatasi nel procedimento a quo, una pronuncia analoga alla sentenza n. 16 del 2022, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, co. 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che il g.i.p., che abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso (cfr., volendo, CAPITTA, Incompatibilità del giudice per le indagini preliminari – Corte cost., n. 16 del 2022, in questa Rivista online, Contenuti).
Rammentati i principi generali che informano la disciplina dell’incompatibilità del giudice, la Consulta ha altresì menzionato i criteri in base ai quali determinare l’insorgere dell’incompatibilità c.d. “orizzontale”, con riguardo sia all’“attività pregiudicante”, che alla “sede pregiudicata”. Quanto all’“attività pregiudicante”, le condizioni che devono sussistere affinché si configuri la necessità costituzionale di prevedere un’ipotesi di incompatibilità endoprocessuale sono state così precisate dalla Corte: le preesistenti valutazioni devono cadere sulla medesima res iudicanda; il giudice deve essere stato chiamato a effettuare una valutazione di atti anteriormente compiuti, in maniera strumentale all’assunzione di una decisione; tale valutazione deve attenere al merito dell’ipotesi accusatoria; infine, le precedenti valutazioni devono collocarsi in una diversa fase del procedimento.
Nella fattispecie in esame – ha asserito la Consulta – ricorrono senza dubbio le prime due condizioni. Pertanto, la sentenza qui pubblicata si è soffermata esclusivamente sull’analisi delle ultime due.
In particolare, l’ultima condizione sussiste nel presente caso, giacché il rigetto della richiesta di decreto penale di condanna comporta una regressione del processo alla diversa fase delle indagini preliminari (v. sent. n. 16 del 2022) e una conseguente piena riespansione dei poteri del pubblico ministero, il quale, infatti, ha formulato una seconda – e diversa – richiesta di decreto penale.
Ad avviso della Corte non sussiste, invece, la terza condizione.
Infatti, l’attività alla quale il rimettente intendeva annettere efficacia pregiudicante coincideva con il rigetto della richiesta di decreto penale per ritenuta illegalità della pena proposta dal pubblico ministero: nel caso di specie, in quanto la pena assunta come base per la diminuzione connessa al rito speciale esorbitava, per difetto, dalla cornice edittale del reato contestato. Secondo la Consulta, la valutazione circa l’illegalità della pena può essere, peraltro, compiuta sulla base della mera lettura della richiesta di decreto penale di condanna, senza la necessità di avviare ponderazioni del merito della richiesta stessa.
Considerato ciò, la Corte scorge una netta differenza tra l’ipotesi in esame e quella oggetto del giudizio incidentale definito con la sentenza n. 16 del 2022, riferita al rigetto della richiesta di decreto penale per mancata contestazione di una circostanza aggravante: provvedimento nel quale è insito il riconoscimento che non solo il fatto per cui si procede sussiste ed è addebitabile all’imputato, ma che è altresì aggravato da una circostanza trascurata dal pubblico ministero.
Dunque, lì il rigetto della richiesta di decreto penale comportava una valutazione di merito sulla res iudicanda. Invece, nel caso in esame, il rigetto della richiesta di decreto penale di condanna per ritenuta illegalità della pena comporta una mera valutazione ab externo, che non richiede al giudice di entrare nel merito dell’accertamento del fatto e della responsabilità dell’imputato.
Per questa ragione, il Giudice delle leggi ha ritenuto che siffatta pronuncia non possieda una “forza pregiudicante” tale da perturbare la terzietà e l’imparzialità del giudice chiamato a svolgere una funzione di giudizio nella “sede pregiudicata”, ossia, a pronunciarsi sulla nuova richiesta di emissione di decreto penale di condanna.
La Corte ha, infine, precisato che rimane comunque in capo al giudice la facoltà di allegare, ove ne ricorrano i presupposti concreti, la sussistenza delle «gravi ragioni di convenienza» che legittimerebbero la sua astensione a norma dell’art. 36, co. 1, lett. h), c.p.p.