La Giunta ed il Centro Marongiu sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 132/2019, depositata il 29 maggio scorso.
A sollevare l’interrogativo è la sentenza n. 132/2019, depositata il 29 maggio scorso.
Dichiarata inammissibile è una questione sollevata dal Tribunale di Siracusa, avente a bersaglio la rinnovazione dell’assunzione delle prove dichiarative, in caso di mutamento del giudice. L’ardita prospettazione dei magistrati siciliani- per esser compatibile con la Costituzione, l’obbligo di ripetizione dovrebbe scattare solo quando il processo non ecceda i limiti della durata ragionevole, individuati in tre anni in base alla legge Pinto- non incontra i favori della Consulta.
Questa, tuttavia, ritenendo comunque incongrua la disciplina vigente, si precipita a tracciare le linee di un cambiamento -“la previsione legislativa di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide”- che suona come la morte del principio di oralità-immediatezza.
Il funerale è celebrato in nome dell’esigenza “costituzionalmente rilevante” di salvaguardare “l’efficienza dell’amministrazione della giustizia penale”.
Sono passati dieci anni dalla sentenza n. 317/2009, in cui la Corte scriveva in modo perentorio che “il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del procedimento non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento”. Soluzioni diverse avrebbero introdotto “una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti”.
Per la Corte del 2009, un processo carente sotto il profilo delle garanzie, “non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata”.
Dieci anni più tardi, viceversa, l’efficienza va in bilanciamento con le garanzie di oralità-immediatezza e può travolgere la regola, protetta da nullità assoluta, secondo cui delibera chi e solo chi abbia presenziato all’intera sequela dibattimentale.
Un cambiamento di orizzonti che legittima il turbinio di giudicanti (nel processo a quo, i mutamenti di collegio ammonterebbero a quasi una decina, stando al ritenuto in fatto), come se l’avvicendamento fosse determinato da chi subisce il processo e non da chi, inamovibile per Costituzione, assurge ad altri incarichi per propria libera scelta.
La misura del cambiamento, infine, la rivelano i rimedi strutturali che, per la Corte del 2019, il legislatore dovrebbe adottare. Lasciando perdere ciò che già normativamente esiste -l’art. 477 commi 1 e 2 C.p.p.- ma forse è rimasto un po’ in ombra nello spiegarsi della decisione, si guarda alle “ragionevoli deroghe” e ai “meccanismi compensativi” elaborati a Strasburgo, tutti demandati alla benevolenza del giudice ultimo arrivato.
Un viaggio in Europa, molto diverso da quello che dieci anni fa venne compiuto per innalzare “il livello di sviluppo complessivo dell’ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali” (sent. 317/2009).
Roma, 1° giugno 2019