Con la sentenza n. 190 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, co. 2, c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Macerata, nella parte in cui tale disposizione non prevede la incompatibilità a decidere in sede di giudizio abbreviato del giudice che abbia in precedenza ammesso l’imputato alla messa alla prova, in tale sede esprimendosi espressamente in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti e riqualificando la ipotesi originariamente contestata in diverso titolo di reato.
La presente pronuncia di non fondatezza si basa sul principio generale di non configurabilità di una incompatibilità “endofasica”, da tempo elaborato dalla giurisprudenza costituzionale (v., in relazione all’istituto della messa alla prova, sent. cost. n. 64 del 2022).
Nella fattispecie, l’imputato, in seguito alla notificazione del decreto di giudizio immediato, aveva avanzato richiesta di ammissione alla messa alla prova e, in subordine, di giudizio abbreviato. Il giudice a quo, avendo dapprima accolto, previa riqualificazione della imputazione, la richiesta ex art. 168-bis c.p., per poi revocarla a seguito di rinuncia dell’imputato, veniva chiamato a provvedere nelle forme del rito abbreviato.
Il rimettente ha ritenuto che la decisione di cui era stato investito si collocasse in una fase distinta e autonoma rispetto a quella in cui aveva assunto la statuizione ritenuta pregiudicante, ossia la diversa qualificazione del fatto contestato.
La Consulta non ha condiviso tale assunto.
Infatti, la decisione sulla richiesta di messa alla prova si colloca non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella medesima fase ‒ quella della definizione anticipata del giudizio immediato attraverso i riti alternativi al dibattimento ‒ in cui, nella specie, deve giudicarsi nelle forme del rito abbreviato, così che il supposto effetto di prevenzione non può prodursi.
Ciò, secondo la Corte, impedisce in radice di ravvisare una incompatibilità di rilievo costituzionale, a prescindere dalla portata della statuizione nella specie ritenuta pregiudicante, ossia della riqualificazione giuridica del fatto operata ai fini della decisione sulla messa alla prova.
Tale diversa qualificazione, peraltro, non implica una delibazione del merito dell’ipotesi di accusa, ma è «limitata alla valutazione della correttezza dell’inquadramento della condotta descritta nell’imputazione nell’ambito della fattispecie astratta indicata dal pubblico ministero» (Cass. pen., Sez. II, sent. 25 ottobre 2018, n. 52088).
La sentenza in esame si pone in linea con la costante giurisprudenza della Corte, nella quale sono riscontrabili numerose applicazioni del principio di non configurabilità della incompatibilità “endofasica”, principio secondo cui all’interno di ciascuna delle fasi, deve restare, in ogni caso, «preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere» (ex plurimis, sent. cost., n. 18 del 2017; n. 153 del 2012; n. 177 e n. 131 del 1996; ord. cost. n. 76 del 2007, n. 370 del 2000 e n. 232 del 1999). Di recente, la Consulta ha ribadito che l’incompatibilità non può operare in relazione agli atti assunti nell’ambito della stessa fase processuale venendo, altrimenti, a determinarsi «l’assoluta impossibilità di funzionamento della giurisdizione» (sent. cost. n. 182 del 2025).
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