L’illegittimità della selezione dei creditori in buona fede ai fini della tutela dei rispettivi diritti su beni attinti da confisca di prevenzione – Corte cost. n. 26 del 2019
Con la sentenza n. 26/2019, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. (ritenuta assorbita l’analoga questione sollevata rispetto all’art. 41 Cost.) dell’art. 1, comma 198, della L. 228/2012 (recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), nella parte in cui limita alle specifiche categorie di creditori ivi menzionati la possibilità di ottenere soddisfacimento dei propri crediti sui beni del proprio debitore che siano stati attinti da confisca di prevenzione. La disposizione censurata va pertanto letta ora al netto degli incisi che limitano le categorie dei creditori legittimati ad accedere allo speciale procedimento disciplinato dai commi da 194 a 206 ferma restando la necessità di verificare caso per caso, ai sensi del comma 200, la presenza di tutte le condizioni previste dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011 ai fini del soddisfacimento del diritto vantato da ciascun creditore. Riprendendo quanto già stabilito nella sentenza n. 94 del 2015, in cui la medesima disposizione era già stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 36 Cost. nella parte in cui non includeva tra i creditori che sono soddisfatti nei limiti e con le modalità ivi indicati anche i titolari di crediti da lavoro subordinato, la Corte non ravvisa alcuna ragione per imporre un sacrificio altrimenti irreparabile dei diritti della generalità dei creditori di buona fede, a fronte di provvedimenti di sequestro o di confisca che abbiano attinto il loro debitore, né tantomeno per discriminare la loro posizione rispetto ad altre. Né potrebbe ritenersi diversamente in una prospettiva di bilanciamento con l’interesse sotteso alle misure di prevenzione patrimoniali, ricollegabile ad esigenze di ordine e sicurezza pubblica anch’esse costituzionalmente rilevanti: sia perché, nella specie, in effetti non di bilanciamento si tratta “ma di un sacrificio puro e semplice” dell’interesse contrapposto; sia perché all’esigenza di evitare manovre collusive con il debitore sottoposto a procedimento di prevenzione, eventualmente finalizzate a porre in salvo una parte dei suoi beni dalla prospettiva del sequestro e della successiva confisca, la normativa già provvede imponendo comunque la verifica delle condizioni di cui al citato art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011 per il soddisfacimento dei diritti di credito dei terzi, con particolare riguardo all’anteriorità del credito o del diritto reale di garanzia rispetto al sequestro, all’insufficienza del restante patrimonio per l’integrale soddisfacimento del credito (salvo per i crediti assistiti da cause legittime di prelazione sui beni sequestrati) e alla non strumentalità di quest’ultimo rispetto all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego (salvo si dimostri di avere ignorato in buona fede tale circostanza, tenuto conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi). Generalizzando le conclusioni cui era già pervenuta con la sentenza 94 del 2015, la Corte conclude pertanto affermando che il radicale sacrificio dell’interesse di qualsiasi creditore il quale abbia acquisito il proprio diritto confidando, in buona fede, nel futuro adempimento da parte del debitore, pur in presenza di tali condizioni, si risolverebbe in una restrizione sproporzionata, in quanto eccessiva rispetto al pur legittimo scopo antielusivo perseguito, del diritto patrimoniale del creditore medesimo.