Con la sentenza n. 48 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, co. 3, Cost., dal Tribunale di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, nella parte in cui tale disposizione, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso.
Secondo il rimettente, la denunciata lacuna normativa violerebbe gli artt. 3, 13 e 27, co. 3, Cost., sotto i profili della necessità, proporzionalità e umanità della pena, in quanto costringerebbe il giudice a infliggere una sanzione che, atteso il dolore già patito dal reo per la perdita del familiare, risulterebbe in concreto inutile, eccessiva e crudele. Ciò potrebbe accadere in fattispecie come quella oggetto del giudizio a quo, relativa all’omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, imputato a uno zio per la morte del nipote, suo dipendente.
Il Tribunale di Firenze ha evocato, in proposito, la nozione di “pena naturale”, sintagma che rimanda al potere giudiziale – configurato in alcuni ordinamenti europei – di non irrogare la pena, o di irrogarla in misura attenuata, quando l’autore del reato abbia patito un danno significativo in conseguenza del reato medesimo.
Posto che l’istituto della pena naturale non è mai stato recepito nell’ordinamento italiano, la Consulta ha escluso la sussistenza di un vincolo costituzionale che ne esiga l’introduzione in conformità alla richiesta del rimettente. Infatti, ad avviso della Corte, il petitum formulato nell’ordinanza di rimessione si rivela eccessivamente ampio sotto tre distinti aspetti, ognuno dei quali sufficiente a inficiarne la fondatezza.
In primo luogo, il giudice a quo fa riferimento, in generale, a «procedimenti relativi a reati colposi», senza alcuna distinzione tra le possibili, varie declinazioni della nozione di “colpa”, che possono viceversa corrispondere a ipotesi molto diverse tra loro sotto il profilo criminologico e della protezione dei beni.
Inoltre, il rimettente chiede di introdurre la causa di improcedibilità con riguardo a ogni condotta colposa che abbia cagionato la morte di un «prossimo congiunto» dell’agente, sul presupposto che la perdita di un familiare infligga all’agente medesimo una sofferenza intima, tale che l’ulteriore pena irrogata nel processo risulterebbe inutile. Tuttavia, come osserva la Corte, la nozione penalistica di «prossimo congiunto» fornita dall’art. 307, co. 4, c.p. è molto ampia e si estende ben oltre la famiglia nucleare.
Infine, l’eccessiva latitudine del petitum additivo si manifesta, a parere della Consulta, nell’oggetto stesso dell’addizione. Con la censura dell’art. 529 c.p.p., il Tribunale di Firenze chiede che sia attribuita al giudice la facoltà di emettere sentenza di non doversi procedere: viene quindi indicata una sentenza in rito, con la formula terminativa di maggior favore per l’autore del reato.
Tuttavia – ha concluso il Giudice delle leggi – non vi sono ragioni costituzionali in base alle quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché, in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva.