Con la sentenza n. 253 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, co. 1, L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti e ha altresì dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, co. 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis c.p. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
Con questa importante pronuncia, la Consulta ha sottratto all’applicazione del meccanismo “ostativo” previsto dall’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio di cui all’art. 30-ter ord. penit. La presunzione di pericolosità – stabilita dall’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. per il condannato che non collabora con la giustizia – resta, ma non in modo assoluto, perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti (v. Comunicato Stampa della Corte costituzionale del 4 dicembre 2019).
Dunque, la presunzione di pericolosità del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa. Per la Corte costituzionale, se la persona condannata non collabora, non può essere “punita” ulteriormente, negandogli benefici riconosciuti a tutti, quando si dimostra il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale (v. Comunicato stampa, cit., 4 dicembre 2019).
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia erano state modellate sulle fattispecie portate alla attenzione dei giudici a quibus, nelle quali la richiesta di accesso al permesso premio riguardava due condannati alla pena dell’ergastolo, per reati cosiddetti ostativi, in specie, per i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste. La Consulta si è però pronunciata sulla disposizione di legge censurata, cioè l’art. 4-bis, co. 1, ord. penit., che vale, con riguardo ai delitti ivi elencati, tanto per condanne a pena perpetua, quanto per condanne a pena temporanea. Inoltre, nei processi a quibus si fa questione della sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri benefici. Pertanto – ha osservato la Corte – è unicamente al permesso premio che la decisione fa riferimento e ciò è conforme al perimetro delle questioni sollevate, nonché alla connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata. Infine, i parametri costituzionali evocati avevano riguardo ai principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena di cui, rispettivamente, agli artt. 3 e 27 Cost.
Nel merito, dopo aver affermato che la presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante, è assoluta, perché non può essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa, la Consulta ha sottolineato che è proprio questo carattere assoluto a risultare in contrasto con gli artt. 3 e 27, co. 3, Cost.
Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima.
Non è, infatti, irragionevole presumere che il condannato non collaborante mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza; è invece irragionevole impedire che quella presunzione sia superata da elementi diversi dalla collaborazione (v. anche Comunicato Stampa, cit., 4 dicembre 2019).
Il Giudice delle leggi analizza la incompatibilità della disciplina censurata con i principi costituzionali invocati, sotto tre profili, distinti ma complementari.
Sotto un primo profilo, si osserva che, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. La libertà di non collaborare, garantita nel processo, si trasforma, in fase d’esecuzione, in un gravoso onere di collaborazione che non solo presuppone un criterio in base al quale carceratus tenetur alios detegere, ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
In un secondo senso, la Corte sottolinea con forza che l’assolutezza della presunzione impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato: ciò si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, co. 3, Cost. Occorre che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto e il permesso premio rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Al contrario – come ha rilevato la Consulta – l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada.
In terzo luogo, la Corte ha colto l’irragionevolezza della presunzione assoluta perché questa si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono, perciò, nel tempo, poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
Tuttavia, il Giudice delle leggi ha specificato che questa valutazione deve rispondere a criteri di particolare rigore. La presunzione di pericolosità deve infatti essere superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo e nemmeno in ragione di una semplice dichiarazione di dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi. Il magistrato di sorveglianza non potrà compiere queste valutazioni da solo, ma sulla base delle relazioni dell’Autorità penitenziaria, delle informazioni acquisite dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché delle comunicazioni eventualmente acquisite, ai sensi dell’art. 4-bis, co. 3-bis, ord. penit., dal Procuratore nazionale antimafia e dal Procuratore distrettuale. Ed ancora, il regime probatorio rafforzato che si richiede deve riguardare – ha avvertito la Corte – l’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali.
Infine, la Consulta ha ritenuto di dover estendere, in via consequenziale, l’intervento parzialmente ablatorio a tutti i reati compresi nell’elenco di cui al primo comma dell’art. 4-bis ord. penit. In mancanza di questa estensione, ne sarebbe derivata – ha osservato la Corte – una paradossale disparità di trattamento in danno delle persone condannate per altri reati ostativi racchiusi in quell’eterogeneo elenco.
La decisione in esame è destinata a diventare una sentenza storica, foriera – si auspica – di una nuova stagione di pronunce costituzionali che potranno colpire direttamente il meccanismo “ostativo” dell’art. 4-bis ord. penit. anche con riferimento ad altri benefici penitenziari.