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Prove/Testimonianza – Corte cost. n. 21 del 2017
La Corte costituzionale ha dichiarato:
1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, co. 6, c.p.p., nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, co. 3, del medesimo codice di rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al co. 1 dell’art. 197-bis c.p.p., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste», divenuta irrevocabile;
2) in applicazione dell’art. 27, l. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, co. 3, c.p.p., nella parte in cui prevede l’assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al co. 1 del medesimo art. 197-bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste», divenuta irrevocabile.
Con la sentenza n. 381 del 2006, la Corte costituzionale ha già esaminato, in una situazione analoga a quella oggetto della presente pronuncia, la compatibilità dell’art. 197-bis, co. 3 e 6, c.p.p. con l’art. 3 Cost., e ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui la disposizione si applica alle dichiarazioni rese dalle persone nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «per non aver commesso il fatto», divenuta irrevocabile. Oggi, la Consulta ha pronunciato nuovamente l’illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, co. 3 e 6, c.p.p., estendendola anche al caso di assoluzione «perché il fatto non sussiste», tenuto conto che questa è una formula liberatoria nel merito di uguale ampiezza.
La Corte ha ritenuto di estendere le considerazioni già svolte dalla sentenza n. 381 del 2006 alla questione sottoposta al suo esame, in modo da determinarne l’accoglimento. Identica è la ratio sottesa alle due decisioni costituzionali. Con la l. n. 63 del 2001 di attuazione del giusto processo, il legislatore ha enucleato, secondo una precisa graduazione, una serie di figure di dichiaranti nel processo penale in base ai diversi “stati di relazione” rispetto ai fatti oggetto del procedimento, cui corrisponde altrettanta scansione normativa relativa alle modalità di assunzione della dichiarazione e ai diversi effetti del dichiarato.
Pertanto, la Corte è giunta alla conclusione che assimilare le dichiarazioni della persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato, assolta «per non aver commesso il fatto», alle altre dichiarazioni previste dal co. 1 dell’art. 197-bis c.p.p. «appare per un verso irragionevole e, per altro verso, in contrasto con il principio di eguaglianza» (sent. n. 381 del 2006). La medesima conclusione vale per il caso di assoluzione «perché il fatto non sussiste». Non si può, invero, differenziare il regime e il valore probatorio delle dichiarazioni dell’imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, a seconda che l’assoluzione sia stata pronunciata per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Parimenti per entrambe queste situazioni, non va prevista alcuna assistenza difensiva e alcuna necessità di riscontri esterni alle dichiarazioni. La Corte, dunque, ha posto riparo a questa ulteriore ingiustificata disparità di trattamento determinatasi proprio con la sentenza n. 381 del 2006.
In definitiva, in forza della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, co. 6, c.p.p., le dichiarazioni della persona assolta con formula piena non saranno più assoggettate alla regola di valutazione enunciata nell’art. 192, co. 3, c.p.p.
La Consulta ha esteso, in via consequenziale, al co. 3 dell’art. 197-bis c.p.p. la pronuncia di illegittimità costituzionale: la testimonianza del dichiarante in questione non può restare soggetta a una modalità di assunzione della prova (quella della testimonianza assistita) strettamente correlata alla norma di cui viene dichiarata l’illegittimità costituzionale. Caduta l’una deve conseguentemente cadere pure l’altra.
A.C.