Con la sentenza n. 18 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 24 Cost., dell’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. e), ord. penit., nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.
La Consulta ha precisato che la garanzia costituzionale del diritto di difesa comprende il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e ha sottolineato che di questo diritto è titolare anche la persona ristretta in ambito penitenziario. La Corte ha peraltro ritenuto che il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni con il proprio difensore non sia assoluto e possa essere soggetto a bilanciamenti con altri interessi costituzionalmente garantiti, entro i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, a condizione che non risulti compromessa l’effettività del diritto alla difesa.
Le limitazioni dei diritti fondamentali cui sono sottoposti i detenuti in regime di 41-bis sono costituzionalmente legittime soltanto in quanto non risultino sproporzionate e appaiano funzionali rispetto alla peculiare finalità del regime speciale, che è quella di impedire i contatti con le organizzazioni criminali di appartenenza. Secondo la Corte, il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non si appalesa idoneo a raggiungere tale scopo, risolvendosi, pertanto, in una irragionevole compressione del diritto di difesa.
Infatti, come sottolinea la Consulta, lo scambio di informazioni tra difensori e detenuti in regime differenziato potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo (v. sent. cost. n. 143 del 2013). D’altra parte, il visto di censura previsto dalla disposizione in esame sottopone automaticamente a controllo preventivo tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte di quest’ultimo. Questa modalità con cui opera la misura prevista dall’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. e), è sintomo, secondo la Corte, di una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sent. cost. n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso.