Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

Richiesta di riabilitazione e valutazione sull’esito dell’affidamento in prova: la Corte costituzionale conferma il rito “de plano” – Corte cost., n. 74 del 2022

Anna Maria Capitta

Con la sentenza n. 74 del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, co. 4, e 678, co. 1-bis, c.p.p., sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Messina, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, nella parte in cui tale combinato disposto stabilisce che il giudizio sulle richieste di riabilitazione e quello di valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, anche in casi particolari, si svolgano obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”.
Oggetto di censura è la norma risultante dal rinvio compiuto dall’art. 678, co. 1-bis, c.p.p. (introdotto dal D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, nella L. 21 febbraio 2014, n. 10) all’art. 667, co. 4, c.p.p., che prevede un rito semplificato, mediante il quale il giudice provvede con un’ordinanza pronunciata de plano, in assenza del contraddittorio tra le parti. Ciò in deroga alla disciplina generale del procedimento di esecuzione di cui all’art. 666 c.p.p., articolato attorno a un’udienza in camera di consiglio con la partecipazione necessaria delle parti.
Secondo il rimettente, l’assenza di contraddittorio sarebbe pregiudizievole rispetto al diritto di difesa del condannato, nonché rispetto al complesso degli interessi sottesi alla tutela del giusto processo. La centralità di tali principi è stata sottolineata dal giudice a quo anche con riguardo al procedimento di sorveglianza: in particolare, gli accertamenti oggetto delle presenti questioni, concernenti la richiesta di riabilitazione del condannato e la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova, sarebbero entrambi strettamente connessi alla funzione rieducativa della pena e, dunque, dotati di un’alta discrezionalità e di una tale complessità da richiedere un procedimento a contraddittorio necessario con udienza pubblica.
La Consulta ha evidenziato anzitutto che la disciplina in esame assume una funzione acceleratoria dei tempi processuali e che, a sua volta, questa funzione è ispirata al principio della ragionevole durata dei processi, sancito dall’art. 111, co. 2, Cost. e dall’art. 6, § 1, CEDU, ma messo a dura prova dalla realtà di un sistema giudiziario penale sovraccarico, che spesso non è in grado di fornire risposte di giustizia in tempi adeguati, finendo così per pregiudicare la stessa effettività di tutte le restanti garanzie del “giusto processo” e del diritto di difesa. A fronte di situazioni critiche, come quella del giudizio di sorveglianza – notoriamente afflitto da endemici ritardi nella gestione dei carichi processuali – la Corte ha avvertito che discipline che mirino ad assicurare una sollecita definizione dei contenziosi, lungi dal rispondere a una logica di “efficientismo giudiziario”, costituiscono attuazione di un preciso dovere costituzionale.
Premesso che la disciplina censurata impone senza dubbio al giudice di pronunciarsi in prima battuta in assenza di contraddittorio, il Giudice delle leggi ha ricordato tuttavia come la costante giurisprudenza costituzionale consideri compatibili con gli artt. 24, co. 2, e 111 Cost. i procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, nei quali una prima fase senza formalità è seguita da una successiva fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum, e nella quale avviene il pieno recupero delle garanzie difensive e del contraddittorio (sent. cost. n. 279 del 2019; ord. cost. n. 255 del 2009, entrambe relative al procedimento di cui all’art. 667, co. 4, c.p.p.).
Le disposizioni censurate prevedono, per l’appunto, un procedimento caratterizzato dal “recupero” di tali garanzie nella fase eventuale di opposizione al provvedimento pronunciato senza formalità dal giudice, introdotta dalla parte che vi abbia interesse. La fase di opposizione si svolge con le modalità ordinariamente previste per il procedimento di sorveglianza, a loro volta modellate su quelle dell’incidente di esecuzione di cui all’art. 666 c.p.p., le quali contemplano, tra l’altro, la partecipazione necessaria all’udienza camerale del difensore e del pubblico ministero, la facoltà per l’interessato di chiedere di essere sentito, la possibilità per il giudice di assumere prove in udienza nel contraddittorio tra le parti, nonché – per effetto della sentenza cost. n. 97 del 2015 – la facoltà per il condannato di chiedere che l’udienza si celebri in forma pubblica.
Ciò – ad avviso della Corte – è di per sé sufficiente a garantire la conformità della disciplina processuale censurata ai parametri costituzionali e convenzionali in materia di giusto processo.
Con riguardo alla doglianza relativa al contrasto delle norme in esame con il principio della funzione rieducativa della pena, la Consulta ha rilevato come tale censura appaia meramente ancillare rispetto a quelle relative all’allegata violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo.
Infine, la Corte ha ritenuto infondata anche la censura correlata alla violazione dell’art. 3 Cost., lamentata dal rimettente in relazione alla irragionevolezza della differente disciplina della valutazione dell’esito dell’affidamento in prova rispetto a quella applicabile, tra l’altro, in materia di revoca dello stesso affidamento. Secondo i giudici costituzionali, non può considerarsi imposta dall’art. 3 Cost. l’adozione di un unico modello di disciplina per tutti i procedimenti di sorveglianza. Il tertium comparationis invocato dal rimettente è inconferente: non vi è infatti identità di materia tra concessione del beneficio (in questo caso, valutazione sull’esito dell’affidamento in prova, a percorso di rieducazione concluso) e provvedimento di revoca di un beneficio già concesso, che ha carattere assai più gravoso, comportando l’interruzione di un percorso in atto e il conseguente ritorno in carcere del condannato (v., ad esempio, Corte cost., n. 245 del 2020, con notazione, volendo, di CAPITTA, Carcere e pandemia: per la Consulta la legge “antiscarcerazioni” non viola il diritto di difesa e il diritto alla salute del condannato, in questa Rivista online, 2020, n. 3, Giurisprudenza costituzionale, 1).