Con la sentenza n. 182 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato:
1) inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, co. 1, lett. a), c.p.p., in relazione all’art. 36, co. 1, lett. g), c.p.p., sollevata, in riferimento all’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 47 C.D.F.U.E., dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, nella parte in cui tale disposizione non prevede che le parti possano ricusare il giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento, ai sensi dell’art. 20, co. 2, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, la restituzione degli atti all’autorità proponente;
2) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, co. 1, lett. a), c.p.p., in relazione all’art. 36, co. 1, lett. g), c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 C.E.D.U., dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, nella parte in cui tale disposizione non prevede che le parti possano ricusare il giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento, ai sensi dell’art. 20, co. 2, d.lgs. n. 159 del 2011, la restituzione degli atti all’autorità proponente.
La Consulta ha ritenuto inammissibile, per carenza di motivazione, la questione concernente l’asserita violazione dell’art. 47 C.D.F.U.E., in quanto il giudice rimettente non avrebbe indicato per quali ragioni, e in che termini, la disciplina censurata ricadrebbe nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea.
La Corte ha, inoltre, dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale concernenti la violazione degli ulteriori parametri invocati dal rimettente (artt. 24, 111 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 C.E.D.U).
L’ordinanza di rimessione ha preso le mosse dal riconoscimento da parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. un., 6 luglio 2022, n. 25951) della ricusabilità del giudice della prevenzione che abbia espresso valutazioni di merito sulla medesima regiudicanda in altro procedimento di prevenzione (v. anche sent. cost., n. 283 del 2000), per poi dubitare della mancata previsione della ricusazione anche nel caso in cui la valutazione di merito sia stata formulata nel medesimo procedimento di prevenzione, ai sensi dell’art. 20, co. 2, d.lgs. n. 159 del 2011.
La Consulta ha precisato che, nel caso in esame, la questione è stata sollevata con riferimento all’art. 37 c.p.p., benché la situazione individuata come pregiudicante sussistesse nel medesimo procedimento di prevenzione e che, pertanto, l’identità del procedimento debba necessariamente orientare il sindacato di legittimità costituzionale, in via prioritaria e assorbente, nei confronti della disciplina dell’incompatibilità.
Ciò premesso, la Corte ha osservato che il potere di restituzione degli atti all’organo proponente previsto dall’art. 20, co. 2, d.lgs. n. 159 del 2011 sembra essere riconosciuto al tribunale investito della decisione sulla misura patrimoniale per le ipotesi di grave incompletezza probatoria, che dovrebbero fondare un rigetto della misura proposta.
Inoltre, il Giudice delle leggi ha rilevato come il procedimento di prevenzione abbia una fisionomia monofasica, non venendo in rilievo le scansioni tendenzialmente impermeabili che connotano il processo penale di cognizione. Di conseguenza, ad avviso della Corte, anche la restituzione degli atti all’autorità proponente non determina una regressione di fase, ma identifica una mera sottofase all’interno di un procedimento che resta unitario.
La Corte ha ribadito che le peculiarità del procedimento di prevenzione rispetto al processo di cognizione non sono comunque tali da fondare un ridimensionamento del principio di imparzialità del giudice, tenuto conto che l’art. 111, co. 2, Cost. delinea i caratteri di qualsiasi «giusto processo», e quindi anche di quello di prevenzione.
Ciò posto, la Consulta ha affermato che «sono dunque l’identità di fase nella quale viene disposta la restituzione degli atti all’autorità proponente e la non qualificabilità della relativa decisione come ‘attività pregiudicante’ che risultano decisive al fine dello scioglimento – per la negativa – del dubbio di illegittimità costituzionale prospettato dal rimettente» (v. Considerato in diritto, § 7).
Quanto al profilo relativo alla identità di fase, valgono le considerazioni della Corte poco sopra richiamate, con riguardo alla dimensione monofasica del procedimento di prevenzione (v. Considerato in diritto, § 6.1.).
Inoltre, secondo i giudici costituzionali, nella valutazione posta a fondamento del provvedimento di restituzione degli atti non appare ipotizzabile una situazione pregiudicante, in quanto il potere di restituzione in capo al tribunale è collocato in una scansione procedimentale la cui struttura suggerisce non già l’ipotesi dell’accoglimento della richiesta di misura, bensì quella del suo rigetto. Del resto – prosegue la Corte – lo stesso citato art. 20, co. 2, stabilendo che gli «ulteriori accertamenti patrimoniali» possono disporsi quando sono «indispensabili per valutare la sussistenza dei presupposti» del sequestro o delle altre misure, non ablatorie, appare escludere una valutazione della sussistenza dei presupposti in difetto delle ulteriori indagini. Di conseguenza, anziché valutare la sussistenza dei presupposti, il tribunale che restituisca gli atti valuta la sola sufficienza degli atti. E questo, secondo la Consulta, non integra una “attività pregiudicante” (v. Considerato in diritto, § 7.1.).
Pertanto, la Corte costituzionale ha ritenuto che sia da escludere una compromissione dell’imparzialità del giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento la restituzione degli atti all’autorità proponente.
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