Con sentenza n. 141/2019 depositata il 7 giugno scorso, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità - sollevata con ordinanza del 7 febbraio 2018 dalla Corte d’Appello di Bari, per asserito contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25, comma 2°, 27 e 41 Cost. - dell’art. 3, comma 1, n. 4, prima parte e n. 8 della L. 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata.
Secondo il remittente, infatti, il capovolgimento della prospettiva valutativa del concetto di libertà all’esercizio prostitutivo che il fenomeno delle escort comporta renderebbe ormai necessaria la rinnovazione della valutazione di costituzionalità delle norme impugnate anche in considerazione della collocazione della libertà di autodeterminazione sessuale nell’ambito della tutela accordata dall’art.2 Cost.
Ad avviso della Corte, invece, anche nell’attuale momento storico, la scelta di “vendere sesso” è quasi sempre determinata da fattori – di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale – che, condizionando la libertà di autodeterminazione dell’individuo è compito dello Stato rimuovere ai sensi di quanto previsto dall’art. 3 cpv. Cost. La Corte mostra, in altri termini, evidenti preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole tenuto conto dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché dei rischi per l’integrità fisica e la salute cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente.
Peraltro, la prostituzione non viene inquadrata come strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, bensì come particolare forma di attività economica, sub specie di “prestazione di servizio” finalizzata alla realizzazione di un profitto, in quanto tale pur sempre soggetta ai limiti della sicurezza, della libertà e della dignità umana di cui all’art. 41 Cost.
Tantomeno - prosegue la Corte - risulterebbe violato, nel caso di specie, il principio di offensività giacché, ferma restando la discrezionalità del legislatore nella individuazione dei fatti punibili, il reato andrebbe comunque escluso ogniqualvolta la condotta risulti, per le specifiche circostanze, concretamente priva di ogni attitudine lesiva. Né, invero, la disciplina censurata si paleserebbe eccedente lo scopo, in quanto la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica ex post sul piano processuale. La Corte esclude, infine, che la norma incriminatrice del favoreggiamento della prostituzione sia in contrasto con i principi di determinatezza e tassatività perché l’eventuale esistenza di contrasti sulla rilevanza penale di determinate marginali ipotesi di favoreggiamento rientra nella fisiologia dell’interpretazione giurisprudenziale.