Con ordinanza n. 97 emessa all’esito dell’udienza del 15 aprile 2021 e depositata l’11 maggio 2021 previa contestuale pubblicazione di relativo comunicato stampa, in relazione al giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa) convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, sollevato dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 3 giugno 2020, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. con riguardo all’art. 3 della CEDU, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste che non abbia collaborato con la giustizia, la Corte - dopo aver ricostruito il quadro giurisprudenziale di riferimento richiamato dal giudice a quo a sostegno della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione (Corte Cost. nn. 253 del 2019, 161 del 1997, 274 del 1983 e 264 del 1974 e CEDU 13 giugno 2019 Viola c. Italia) e aver ripercorso l’evoluzione legislativa (in particolare, art. 2, L. 1634/1962 e art. 28 L. 663/1986) e quella giurisprudenziale, sia costituzionale (sentenze nn. 264/1974, 274/1983, 168/1994, 161/1997) sia sovranazionale (CEDU 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro; 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito; 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria), sulla compatibilità della pena dell’ergastolo col principio costituzionale di risocializzazione - prende le distanze dal precedente (sent. 306/1993) che aveva qualificato l’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale come preclusione non derivante automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. quanto, piuttosto, dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo affermando, in primo luogo, che la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento e, in secondo luogo, che può essere dubbia la libertà del condannato medesimo costretto invero “tragicamente” a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà a costo della sicurezza sua e dei propri cari e un destino di reclusione senza fine. In particolare, come già chiarito con la sentenza 253/2019, non è affatto irragionevole presumere dalla mancata collaborazione il mantenimento di legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza (fortemente radicata nel territorio, caratterizzata da una fitta rete di collegamenti personali, dotata di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo) a condizione, tuttavia, si tratti di presunzione relativa superabile da prova contraria (consistente in congrui e specifici elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il rischio del loro futuro ripristino e, comunque, non riducibili alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo o a una soltanto dichiarata dissociazione) rimessa alla valutazione del tribunale di sorveglianza. Ciò posto, essendo sospettati di illegittimità costituzionale aspetti “centrali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali con riguardo, peraltro, al beneficio che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena, la Corte ritiene che, anche per come è stata formulata la questione in aderenza al procedimento a quo (con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso e al solo beneficio della liberazione condizionale), un intervento meramente “demolitorio” potrebbe mettere a rischio, per effetto di “disarmonie” e “contraddizioni”, il complessivo equilibrio della disciplina in esame e, soprattutto, le sottese esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, rientrando piuttosto nella discrezionalità legislativa la scelta, complessiva, ponderata e coordinata, tra le diverse soluzioni di politica criminale in campo. Per questi motivi, facendo leva sui poteri di gestione del processo costituzionale in nome di esigenze di collaborazione istituzionale, la Corte, come già fatto in passato (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018), si limita a disporre il rinvio del giudizio all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia e riservandosi di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni eventualmente assunte.