Come anticipato nel comunicato stampa diffuso all’esito dell’udienza del 24 settembre scorso, in ordine alla questione sollevata con ordinanza del 14 febbraio 2018 dalla Corte di Assise di Milano nell’ambito del noto procedimento penale a carico di Marco Cappato per il suicidio assistito di Fabiano Antoniani (detto DJ Fabo), con la sentenza in oggetto, depositata il 22 novembre 2019, la Corte Costituzionale, pur continuando ad auspicare che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina, preso atto dell’inerzia del legislatore dinanzi al monito rivolto con ordinanza 207/2018, al fine di colmare un vulnus già rilevato o evitare zone franche, sulla scia di quanto a più riprese stabilito in casi simili in cui ad essere in gioco erano pur sempre valori fondamentali che, in mancanza di una pronuncia di accoglimento, sarebbero rimasti privi di tutela (sentenze nn. 99 e 40 del 2019, 233 e 222 del 2018, 236 del 2016, 96 del 2015, 162 del 2014, 113 del 2011 o anche 59 del 1958), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., dell’art. 580 c.p., non in quanto prevede l’aiuto ex se ancorché non rafforzativo del proposito della vittima (come pure sostenuto dal giudice a quo), ma, semplicemente, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della L. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Rimanendo così assorbita la questione, da intendersi come subordinata, dell’asserita violazione dell’art. 3 Cost. relativamente all’identità di trattamento sanzionatorio delle condotte di aiuto e di istigazione, obiettivamente diverse quanto a disvalore, volontà e personalità dell’agente.
Nel merito - escluso ogni riferimento al diritto alla vita di cui all’art. 2 Cost. e 117 Cost in rapporto agli artt. 2 e 8 CEDU come vero e proprio diritto a morire, inclusivo della possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto in tal senso, ovvero di un diritto all’autodeterminazione individuale da cui desumere una generale inoffensività della condotta agevolatoria - la Corte ha ritagliato l’oggetto della censura a quelle particolari situazioni in cui l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost., anche attraverso la richiesta, vincolante per i terzi, di interruzione dei trattamenti di sostegno in atto e contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua o a terapie palliative, sulla base di quanto già desumibile dal combinato disposto delle LL. 219/2017 e 38/2010.
Nel contempo, senza intaccare in alcun modo l’obiezione di coscienza del personale sanitario, per fronteggiare il pericolo di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità insite nella discrezionalità delle scelte sottese, la Corte - analogamente a quanto già fatto in passato in tema di aborto (sent. n. 27 del 1975) o, più di recente, di procreazione medicalmente assistita (sent. nn. 96 e 229 del 2015) - si preoccupa di limitare l’ambito del proprio intervento, circoscrivendo l’area della non punibilità al rispetto della procedura di cui alla stessa L. 219/2017 con riguardo sia alle modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, sia all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative. Non senza considerare i fatti (come quello di Cappato) anteriori alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza per i quali, evidentemente, la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimane subordinata al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti, fermo restando l’obbligo del giudice di verificare, nel caso concreto, le condizioni che valgano a rendere lecita la prestazione (patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli).