Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

Sulla pena minima dell’appropriazione indebita – Corte cost., 22 marzo 2024, n. 46

Daniele Piva

Corte cost.

Con sentenza n. 46 depositata il 22 marzo 2024 la Corte, nell’ambito del giudizio promosso dal Tribunale di Firenze con ordinanza del 6 marzo 2023 in relazione agli artt. 3 e 27, co. 3 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 646, co. 1, c.c. – come modificato dall’art. 1, co. 1 lett. u), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) – nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni». Premesso un richiamo alla discrezionalità del legislatore quanto a determinazione delle pene e selezione delle condotte punibili (ex multis, sent. nn. 207/2023 e 117/2021), la Corte rileva però come la stessa, ripercuotendosi su diritti fondamentali della persona, debba potersi razionalmente giustificare in relazione alle finalità legittimamente perseguite, in modo che le scelte non risultino manifestamente sproporzionate. Nel merito, ripercorso l’iter normativo del “brusco innalzamento” del trattamento sanzionatorio del delitto di appropriazione indebita operato con L. 3/2019, in mancanza di indicazioni desumibili dai lavori preparatori sull’aumento del minimo di pena detentiva pari a ben quarantotto volte quello originario, la Corte esclude che le ragioni dell’intervento possano plausibilmente mutuarsi dalla prossimità del delitto con quelli contro la pubblica amministrazione (sulla quale, stando alla relazione illustrativa dell’originario disegno di legge, si era invece basata la rinnovata procedibilità d’ufficio ai sensi delle modifiche apportate all’art. 649-bis c.p.) se non altro perché la nuova pena minima è destinata ad applicarsi anche a condotte per nulla prodromiche alla costituzione di “fondi neri” dai quali poter attingere per scopi corruttivi e comunque produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti, anche se non necessariamente di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131-bis c.p. Per effetto dell’impugnata disposizione, peraltro, il limite edittale minimo dell’appropriazione indebita (due anni di reclusione) finisce per essere ben quattro volte tanto quello riservato al furto e alla truffa (sei mesi di reclusione), assunti entrambi quali tertia comparationis dal rimettente e rispetto ai quali vi sono pure difficoltà di tracciare la linea discretiva a parità di danno patrimoniale. Né si tratta di una sproporzione rimediabile con la possibilità, in quanto comunque rimessa alle varabili del caso concreto, di applicare diminuzioni di pena in conseguenza di attenuanti anche generiche o connesse alla scelta del rito o ancora di ritenere il fatto non punibile ai sensi dell’art. 131-bis c.p. ovvero il reato estinto ai sensi dell’art. 162-ter c.p. o anche solo di accedere alla sospensione condizionale della pena o a pene sostitutive di carattere non detentivo. Definita in questi termini la questione, la Corte precisa che la sua reductio ad legitimitatem esige la mera dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena minima di due anni di reclusione, suscettibile di produrre in singoli casi concreti pene manifestamente sproporzionate per eccesso, con conseguente applicazione del limiti minimo di giorni quindici di reclusione previsto dall’art. 23 c.p. Diversamente, infatti, dalla sentenza sostitutiva per effetto della quale equiparare la pena minima a quella stabilita per furto e truffa, come pur richiesto dal rimettente nell’orizzonte delle cd. “rime obbligate” (sent. nn. 40/2019 o 236/2016), nel caso di specie non sussistono “insostenibili vuoti di tutela”, non colmabili tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti (come in sent. n. 222/2018), in relazione al patrimonio che continuerà invece ad essere efficacemente tutelato grazie alla pena prevista dall’art. 646 c.p. suscettibile di essere applicata dal giudice, nell’ipotesi delittuosa base, sino a un massimo di cinque anni di reclusione. Ferma restando la possibilità che sia il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, a voler equiparare la pena minima per l’appropriazione indebita alla medesima soglia oggi stabilita per il furto e la truffa, ovvero stabilirne una diversa durata, tenendo conto del suo peculiare disvalore e comunque entro i limiti dettati dal principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.