Nell’ambito del noto caso di “Mafia Capitale”, con la sentenza emessa il 22 ottobre la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, nel disporre diversi annullamenti (con o senza rinvio) e nel rigettare o dichiarare inammissibili taluni ricorsi, in riforma della sentenza pronunciata dalla Sezione Terza della Corte d’Appello di Roma in data 11 settembre 2018 n. 10010 (che sul punto aveva, a sua volta, ribaltato la sentenza di primo grado), ha escluso la sussistenza del delitto di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) riqualificando i fatti in mera associazione a delinquere (art. 416 c.p.) e, specularmente, cancellato le connesse circostanze aggravanti previste dagli artt. 416bis 1 c.p. o anche 628 comma 3 n. 3 e 629 c.p.
In attesa del deposito della motivazione, può dunque ritenersi che nelle consorterie politico-affaristiche de quibus, ormai accertate in via definitiva, si sono senz’altro ravvisati i requisiti dell’affectio societatis e dell’indeterminatezza del programma delittuoso ma si è viceversa escluso che un qualsiasi avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per acquisire in modo, diretto o indiretto, la gestione o comunque il controllo di attività economiche.
Nell’assumere il ruolo di “collante” nei patti illeciti tra settore pubblico e imprenditoria privata, il catalogo dei reati-fine, in taluni casi ora riqualificati dalla Corte in corruzione (artt. 318 o 319 e 321 c.p.) o traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.), sembrerebbe quindi coinciderebbe con pratiche sistemiche di malaffare o con la degenerazione, talvolta per uso di violenza o minaccia, di rapporti intersoggettivi tendenzialmente paritari che pur non raggiungono una connotazione mafiosa, neppure in senso lato.
In attesa del ricalcolo di alcune pene, segue ora l’esecuzione di quelle divenute definitive ma anche la possibile revoca, laddove sinora applicato, del regime del carcere duro ex art. 41-bis L. 354/1975.
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