Con questa decisione la Corte di Giustizia approfondisce i contenuti del principio di proporzionalità e gli attribuisce efficacia diretta a partire dalla disciplina europea in materia di libera prestazione dei servizi, per cui il giudice penale è tenuto a disapplicare la normativa interna per assicurare l’applicazione di una sanzione proporzionata, anche alla luce dell’art. 49, § 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
In particolare, si osserva che la Direttiva in materia di lavoratori distaccati, dove vieta allo Stato membro di applicare sanzioni sproporzionate rispetto all’entità della violazione, contiene una previsione chiara e incondizionata, dunque dotata di effetto diretto secondo quanto previsto dalla giurisprudenza europea a proposito delle direttive self executing.
Pertanto la norma, in quanto dotata di tutte le caratteristiche che ne consentono l’immediata applicazione a prescindere dall’attività di recepimento dello Stato membro, può essere invocata per ottenere dal giudice domestico la disapplicazione del diritto interno laddove questo prevede l’applicazione di una sanzione sproporzionata.
L’elemento di rilievo della sentenza risiede, tuttavia, nell’affermazione della proporzionalità quale principio generale dell’UE, previsto anche dall’art. 49, § 3 della Carta di Nizza: pertanto, gli Stati sono tenuti a darne attuazione anche a prescindere dall’armonizzazione delle sanzioni di cui all’ambito oggettivo della direttiva, il che porta ad attribuire alla decisione una portata sistematica e generale.
A fronte della ritenuta efficacia diretta della regola della proporzionalità di cui all’art. 20 della direttiva in questione, la Corte afferma che il giudice penale chiamato a sanzionare un illecito introdotto in sede di attuazione della fonte comunitaria deve «disapplicare la parte della normativa nazionale da cui deriva il carattere sproporzionato delle sanzioni, in modo da giungere all’irrogazione di sanzioni proporzionate, che permangano, nel contempo, effettive e dissuasive».
Ciò non significa che si debba disapplicare l’intera previsione che disciplina la violazione e la relativa conseguenza sanzionatoria: occorre invece disapplicare solo in parte la norma, nella misura minima necessaria ad assicurare il rispetto del principio di proporzionalità.
In questi termini, l’assunto apre ad una serie di interrogativi significativi sul potere discrezionale del giudice di cui agli artt. 132 e 133 c.p., rivisitato in chiave inedita e innovativa, cioè quale potere di applicare una pena proporzionata al fatto e alla gravità della violazione anche a prescindere dai limiti edittali previsti dal precetto.
Secondo la Corte, tuttavia, una previsione di tal genere non si pone in contrasto col principio di legalità in materia penale, dal momento che questo ha la funzione di impedire modificazioni in peius rispetto a quanto previsto al tempo del reato, mentre la proporzionalità viene richiamata, in tale ambito, per consentire al giudicante di applicare una pena più mite perché proporzionata al fatto.
La disapplicazione, pertanto, non si pone in contrasto con la ratio del principio di legalità.
Similmente, non vengono ravvisati profili di conflitto col principio di certezza del diritto, trattandosi di una regola che coinvolge la qualità della normazione e la stabilità dell’attività interpretativa delle Corti, mentre la proporzionalità viene richiamata quale vincolo per l’autorità giudicante in fase commisurazione del trattamento sanzionatorio in concreto, rispetto all’entità della violazione accertata.
Con queste precisazioni, la Corte di Giustizia precisa in anticipo le possibili illegittimità di una proporzionalità “pura”, che sottrae del tutto il potere di commisurare la pena al legislatore e lo attribuisce al giudice.
In senso contrario, emerge dalla decisione una dimensione della proporzionalità compatibile con lo statuto della legalità penale perché favorevole, da intendersi quale limite al potere sanzionatorio in concreto e che porta all’individuazione di una pena complessiva inferiore rispetto a quella che dovrebbe essere inflitta a partire dalla normativa interna di recepimento.
In prospettiva generale, la sentenza si distingue non tanto e non solo per la centralità che attribuisce al principio di proporzione – già presente nella giurisprudenza precedente con un orientamento parallelo a quello adottato dalla Corte di Strasburgo alla luce dell’art. 7 C.e.d.u. – quanto per aver collegato il principio di necessaria proporzione al primato del diritto dell’Unione e, dunque, ai meccanismi che ne assicurano l’effettiva applicazione.
La proporzionalità, in questi termini, rientra tra i presupposti della disapplicazione e consente apporre una condizione di legalità europea alla forbice edittale prevista dal precetto, una sorta di controlimite alla pena prevista dal legislatore, vincolante per il giudice fino a che non costringa all’applicazione di una sanzione non proporzionata alla luce delle peculiarità del caso concreto.
la Corte UE (Grande Sezione) ha dichiarato che: 1) L’articolo 20 della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, concernente l’applicazione della direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi e recante modifica del regolamento (UE) n. 1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno («regolamento IMI»), laddove esige che le sanzioni da esso previste siano proporzionate, è dotato di effetto diretto e può quindi essere invocato dai singoli dinanzi ai giudici nazionali nei confronti di uno Stato membro che l’abbia recepito in modo non corretto. 2) Il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone alle autorità nazionali l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale è contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni previsto all’articolo 20 della direttiva 2014/67, nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate.
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