Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

Sull’illegittimità del divieto assoluto di affettività della persona detenuta conseguente all’inderogabilità del controllo a vista – Corte cost., sent. 10/2024

Corte cost.

Con sentenza n. 10 del 2024, resa a esito della questione di legittimità sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto con ordinanza del n. 5 del 12 gennaio 2023, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, co. 1 e 4, 27, 3 co., 29, 30, 31, 32 e 117, co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 18 della L. 26 luglio 1975, n. 354 (legge sull’ordinamento penitenziario), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.
La pronuncia ha per la Corte una esplicita rilevanza in tema di diritto all’affettività per le persone detenute, in quanto ivi si legge: «l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società». La disposizione censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista del detenuto durante i colloqui, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a questi stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza.
La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli artt. 3 e 27, co. 3 Cost. per l’irragionevole compressione della dignità della persona causata dalla suddetta previsione e per l’ostacolo che da essa deriva alla finalità rieducativa della pena.
Si riconosce inoltre che una larga maggioranza degli ordinamenti europei ammette che le persone detenute possano accedere a spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità; pertanto, deve ritenersi violato – prosegue la Corte – anche l’art. 117, co. 1 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, per il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell’affettività “entro le mura”.
La Corte si preoccupa di precisare che una tale rivoluzione culturale, densa di problemi organizzativi che dovranno necessariamente essere affrontati da fautori e operatori dell’esecuzione penale, richiederà un’«azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze», per garantire l’adeguamento anche strutturale a queste misure, «con la gradualità eventualmente necessaria».
Da ultimo, è stato precisato che – in coerenza con l’oggetto del giudizio principale, concernente il reclamo ex art. 35-bis L. 354/1975 da parte di un detenuto comune ristretto presso la Casa circondariale di Terni – la sentenza non concerne il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis L. 354/1975, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis della medesima legge.