Il ricorrente era stato processato e condannato in primo grado per reati di associazione mafiosa, detenzione illegale di armi e traffico di droga. Egli ha lamentato innanzi al giudice sovranazionale la violazione dell’art. 3 CEDU per trattamenti inumani e degradanti in ragione della subita detenzione in carcere (sia sotto forma di custodia cautelare, sia come condanna scontata in parte di carcere ed in parte in un ospedale psichiatrico giudiziario), incompatibile con le sue condizioni psichiche, poiché lo stesso era stato dichiarato invalido al 100% a causa dei suoi disturbi psichiatrici.
Preliminarmente, la Corte di Strasburgo ha richiamato una precedente pronuncia ove erano stati enunciati i principi di compatibilità della detenzione con condizioni patologiche come quella del ricorrente (Corte EDU, Grande Camera, 31 gennaio 2019, Rooman c. Belgio, n. 18052/11, §§ 141-148), ove è stato chiarito che a tal fine è necessario analizzare due elementi. In primo luogo, lo stato di salute dell’interessato e l’effetto delle modalità di esecuzione della sua detenzione sul suo sviluppo (§ 74) e, in seconda battuta, l’adeguatezza o meno delle cure e dei trattamenti medici forniti durante la detenzione (§ 75).
Sotto questo secondo profilo, la Corte europea ha precisato che il semplice fatto che un detenuto sia stato visitato da un medico e gli sia stato prescritto un particolare trattamento non può portare automaticamente alla conclusione che le cure somministrate siano adeguate. Peraltro, ai fini di cui all’art. 3 CEDU, è essenziale che un detenuto affetto da una malattia grave faccia esaminare il suo stato di salute da uno specialista della patologia in questione (§ 76) affinché gli possa essere fornito il trattamento adeguato (Corte EDU, 1° settembre 2016, Wenner c. Germania, n. 62303/13, § 56; Corte EDU, 3 aprile 2001, Keenan c. Regno Unito, n. 27229/95, § 115).
La Corte di Strasburgo ha rilevato che i periti nominati dai tribunali italiani hanno valutato il trattamento delle patologie del ricorrente compatibile con l’ambiente carcerario, anche grazie alla presenza di diversi specialisti all’interno della struttura carceraria e alla possibilità di utilizzo occasionale di strumenti esterni (§ 83).
Inoltre, non appena le condizioni del ricorrente si erano aggravate, le autorità giudiziarie italiane ne avevano disposto il rilascio (§ 84). Alla luce di queste considerazioni, il giudice sovranazionale ritiene che il periodo di reclusione dell’imputato, precedente all’aggravamento delle sue condizioni, non contrasta con i dettami di cui all’art. 3 CEDU (§ 87).
In generale, la Corte interpellata ha evidenziato che la documentazione prodotta attesta come il ricorrente abbia beneficiato di numerosi esami e terapie, i quali sono stati considerati sufficienti dagli esperti nominati dai tribunali nazionali. Il ricorrente è stato costantemente monitorato sia in ordine alle patologie psichiche sia con riguardo ai suoi disturbi alimentari e fisici (problemi tiroidei, urologici, addominali e renali) (§ 89).
In definitiva, la Corte europea ha reputato che le autorità nazionali hanno offerto all’interessato cure adeguate e hanno reagito con la dovuta diligenza al momento del peggioramento del suo stato di salute (§ 94). Si è, di conseguenza, esclusa la lamentata violazione dell’art. 3 CEDU (§ 99).
La Corte europea dei diritti dell’uomo non ha ritenuto violato da parte dell’Italia l’art. 3 C.e.d.u., per avere le autorità italiane verificato la compatibilità del regime detentivo con lo stato di salute del ricorrente e per aver sottoposto a costante monitoraggio le condizioni fisiche e psichiche del detenuto.
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