La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 C.e.d.u. nei suoi profili sostanziali e procedurali a proposito di reati di violenza domestica essendo lo Stato italiano venuto meno al suo dovere di indagare sui maltrattamenti subiti dalla ricorrente e dai suoi figli.
A differenza delle sentenze Talpis c. Italia (2 marzo 2017, ric. n. 41237/14, violazione degli artt. 2 e 3 C.e.d.u.) e Landi c. Italia (7 aprile 2022, ric. n. 10929/19, violazione dell’art. 2 C.e.d.u.), la vicenda non si è conclusa con la tragica morte di una persona.
I fatti. - La ricorrente lamentava la violazione degli obblighi positivi derivanti dagli artt. 3 e 8 C.e.d.u. nel contesto dei reati di violenza domestica e, in particolare, la mancanza di protezione e assistenza da parte dello Stato convenuto a seguito della violenza domestica asseritamente inflittale dal marito.
La ricorrente e suo marito, genitori di tre figli, si sono separati nel 2013. L'accordo di separazione, convalidato dal tribunale, prevedeva che i figli rimanessero domiciliati presso la ricorrente, ma che il padre potesse vederli liberamente e che si facesse carico del pagamento degli alimenti.
La ricorrente sostiene di essere stata oggetto di molestie e minacce sin dalla separazione.
Il 18 novembre 2015 ha presentato denuncia ai Carabinieri di Padova, spiegando loro che, da diversi mesi, l’ex marito l'aveva seguita, minacciandola con un coltello, controllandole il telefono, minacciando di suicidarsi, era violento verso i bambini e ha affermato di voler uccidere l'intera famiglia. La ricorrente ha fornito l'identità di testimoni suscettibili di confermare le sue dichiarazioni.
Lo stesso giorno della denuncia i carabinieri di Padova hanno informato il pubblico ministero della denuncia del ricorrente. È stato aperto un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Il 23 novembre 2015 la Procura della Repubblica ha chiesto ai carabinieri di svolgere un'indagine sulla coppia. Nel frattempo, il 20 novembre 2015, l’ex marito ha aggredito la ricorrente afferrandola per il collo, minacciandola di morte e colpendola con il casco della sua moto. Dopodiché, ha afferrato il suo telefono e ha costretto la ricorrente a entrare nell'edificio in cui viveva la madre di lui. La polizia è arrivata sul posto ed egli ha confessato di aver picchiato la ricorrente e di averle preso il cellulare. Il giorno seguente, la ricorrente è stata curata in ospedale dove le sono state diagnosticate diverse contusioni. E’ seguita nuova denuncia ai carabinieri da parte della ricorrente.
Il 23 novembre 2015 i carabinieri hanno inviato al pubblico ministero un rapporto aggiornato sulla situazione della ricorrente, riferendo l'episodio di violenza del 20 novembre e, vista la situazione, hanno chiesto all'autorità giudiziaria di valutare l'opportunità di adottare una misura cautelare a protezione della ricorrente e di allontanare l’ex marito dalla casa familiare.
Nel dicembre 2015 e nel gennaio e marzo 2016 sono seguite altre denunce da parte della ricorrente e nel febbraio 2016 la ricorrente ha depositato una richiesta di misura cautelare presso il tribunale civile per chiedere che l’ex marito fosse allontanato dalla casa familiare e gli fosse proibito di avvicinarsi.
Con sentenza del 22 marzo 2016, il Tribunale Civile di Padova ha respinto l'istanza di ordine di protezione proposta dalla ricorrente, rilevando l'assenza di convivenza tra i due e che le azioni di L.B. dovevano collocarsi in un contesto di separazione conflittuale.
Il 5 maggio 2016 il p.m. ha chiesto al giudice delle indagini preliminari il rigetto di alcune denunce della ricorrente ad eccezione di quella relative all'episodio del 20 novembre 2015 per i reati di lesioni e minacce. Riteneva che tali denunce non fossero sufficientemente dettagliate e che le prove raccolte non consentissero l'avvio di procedimenti penali.
Il 30 marzo 2017 il G.I.P. ha parzialmente archiviato le denunce e ha osservato che le dichiarazioni del ricorrente non erano sufficientemente credibili alla luce dell'acuto conflitto tra le parti.
A seguito di ulteriori denunce della ricorrente depositate nel settembre 2016, il pubblico ministero ha aperto un'indagine sui reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare, furto, diffamazione e mancato rispetto di una decisione del tribunale per mancato pagamento degli alimenti. Nello stesso fascicolo sono state inserite le denunce che l’ex marito aveva proposto contro la ricorrente.
Nel frattempo, durante il procedimento di separazione civile, il tribunale aveva ordinato ai servizi sociali di redigere una relazione sulla situazione della famiglia. In tale verbale, del 5 febbraio 2018, risultava che i minori, che avevano subito abusi dal padre e non erano stati sufficientemente protetti dalla madre, si trovavano in una situazione di disagio. I servizi sociali chiedevano che i bambini fossero sottoposti a un percorso terapeutico. Questo rapporto è stato inviato al pubblico ministero. E' stato inserito nel fascicolo dell'indagine in corso per i reati di furto, diffamazione e mancato rispetto di una decisione del tribunale per mancato pagamento degli alimenti. Tuttavia, nessuna indagine è stata condotta sui presunti maltrattamenti dei bambini.
In data 19 novembre 2018, la ricorrente ha chiesto al p.m. incaricato dell'indagine di accedere agli atti processuali, di iscrivere la notitia criminis nell'apposito registro, di chiedere al G.I.P. di riaprire il procedimento penale chiuso nel 2016 al fine di ascoltare i minori e indagare sui maltrattamenti da lei già denunciati, tenendo altresì conto della segnalazione dei servizi sociali.
Sono seguite altre denunce nel 2019, anche per mancato pagamento degli alimenti da parte dell’ex marito.
Il 23 luglio 2020 il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex marito per i fatti accaduti nella notte del 20 novembre 2015. La prima udienza si è svolta nell'aprile 2021. Quanto al procedimento relativo al mancato pagamento degli alimenti, l'istruttoria, secondo le ultime informazioni pervenute alle parti, è ancora pendente dal 2016. Inoltre, nessuna indagine è stata svolta in relazione al reato di pedofilia (§ 34).
La decisione. La Corte europea, dopo aver analizzato la normativa interna contemplata dal codice civile, dal codice penale e processuale penale, ha osservato che “da un punto di vista generale, il quadro giuridico italiano era in grado di fornire protezione contro atti di violenza che potevano essere commessi da individui in un determinato caso. Rileva inoltre che la panoplia di misure giuridiche e operative disponibili nel sistema legislativo italiano (cfr. paragrafi 35-36 della sentenza in oggetto) offriva alle autorità interessate una gamma sufficiente di opzioni adeguate e proporzionate in considerazione del livello di rischio nel caso di specie” (§ 71). Ed aggiunge che “mentre i carabinieri hanno reagito senza indugio alle due censure che la ricorrente ha presentato nel novembre 2015 e sono intervenuti durante i litigi e gli episodi violenti, i p.m., dal canto loro, più volte informati dai carabinieri, non hanno chiesto al G.I.P. il provvedimento cautelare richiesto dai carabinieri e non hanno svolto un'indagine rapida ed efficace, dato che a sette anni dai fatti il procedimento è ancora pendente in primo grado per l'episodio del 20 novembre 2015; l'indagine sui fatti denunciati tra il 2016 e il 2017 è ancora pendente e nessuna indagine, invece, è stata svolta a seguito dei maltrattamenti denunciati dai servizi sociali nel 2018 (§ 72).
La Corte ribadisce che “non rientra nella sua competenza sostituirsi alle autorità nazionali e fare una scelta al loro posto tra le misure da adottare. Ritiene tuttavia che, alla luce dei numerosi elementi a disposizione delle autorità, la Procura della Repubblica adita nel novembre 2015 avrebbe potuto svolgere un'indagine più rapida sull'episodio del 20 novembre 2015 e sugli altri denunciati dalla ricorrente” (§ 73). Inoltre rileva che le autorità competenti nel loro insieme non hanno svolto adeguata valutazione del rischio che in concreto si correva il rischio di reiterazione delle violenze nei riguardi della ricorrente e dei figli (§ 78) e non hanno posto in essere misure protettive quando queste misure erano state richieste dai carabinieri (§ 77).
La Corte ribadisce che “l'obbligo di svolgere un'indagine efficace su tutti gli atti di violenza domestica è un elemento essenziale degli obblighi che l'articolo 3 della Convenzione impone allo Stato. Per essere efficace, tale indagine deve essere tempestiva e approfondita; tali requisiti si applicano all'intero procedimento, anche nella fase processuale (M.A. c. Slovenia, n. 3400/07, § 48, 15 gennaio 2015, e Kosteckas c. Lituania, n. 960/13, § 41, giugno 13, 2017). È richiesta una particolare diligenza nel trattare i casi di violenza domestica e la natura specifica della violenza domestica deve essere presa in considerazione durante la procedura interna. L'obbligo di indagine dello Stato non sarà soddisfatto se la tutela offerta dal diritto interno esiste solo in teoria; soprattutto, deve anche funzionare efficacemente nella pratica, il che richiede un rapido esame del caso, senza inutili ritardi (Opuz, sopra citata, §§ 145-151 e 168, T.M. e C.M., sopra citata, § 46, e Talpis c. Italia, n.41237/14, §§ 106 e 129, 2 marzo 2017). Il principio di effettività implica che le autorità giudiziarie nazionali non debbano in alcun caso essere disposte a lasciare impunite le sofferenze fisiche o psicologiche inflitte. Ciò è essenziale per mantenere la fiducia e il sostegno dell'opinione pubblica nello stato di diritto e per prevenire qualsiasi parvenza di tolleranza o collusione da parte delle autorità in relazione ad atti di violenza (Okkalı c. Turchia, n. 52067/99, § 65, CEDU 2006- XII (estratti)” (§ 81).
La Corte ritiene inoltre che, nel trattamento giurisdizionale dei casi di violenza contro le donne, spetti alle autorità nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità, morale, fisica e/o materiale, della vittima e valutare la situazione di conseguenza, il prima possibile. Nel caso di specie, la Corte non è convinta che le autorità abbiano compiuto un serio tentativo di avere un panorama completo della sequenza di episodi violenti in questione, come richiesto nei casi di violenza domestica. I pubblici ministeri in entrambe le indagini non hanno mostrato alcuna consapevolezza delle caratteristiche particolari dei casi di violenza domestica e nessun reale desiderio di responsabilizzare l'autore del reato (§ 85).
I giudici sovranazionali ritengono che “lasciare la ricorrente a badare a sè stessa in una situazione di provata violenza domestica equivale alla rinuncia dello Stato al suo obbligo di indagare su tutti i casi di maltrattamento” (§ 86) e questo proposito ricorda che “il semplice trascorrere del tempo rischia di danneggiare l'indagine ma anche di comprometterne permanentemente le possibilità di successo (M.B. c. Romania, n. 43982/06, § 64, 3 novembre 2011). Ricorda inoltre che “il passare del tempo erode inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove a disposizione e che, inoltre, l'apparenza di una mancanza di diligenza mette in dubbio la buona fede con cui si svolgono le indagini e perpetua le sofferenze dei ricorrenti” (§ 87).
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte europea afferma la violazione dell’art. 3 C.e.d.u. essendo lo Stato italiano venuto meno al suo dovere di indagare sui maltrattamenti subiti dalla ricorrente [e dai suoi figli] e che il modo in cui le autorità nazionali hanno condotto il procedimento penale riflette anche la passività giudiziaria e non si può dire che soddisfi i requisiti dell'articolo 3 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, W. c. Slovenia, n. 24125/ 06, §§ 66-70, 23 gennaio 2014, P.M. c. Bulgaria, n. 49669/07, §§ 65-66, 24 gennaio 2012, e M.C. e A.C., sopra citata, §§ 120-125).
Sulla scorta di queste argomentazioni, la Corte europea ha condannato l’Italia al pagamento, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza diventa definitiva ai sensi dell'articolo 44 § 2 della Convenzione, della cifra di euro 10.000 per danno morale; e di euro 6.983,75 per le spese processuali.
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