Violazione art. 5 § 1 C.e.d.u. – Privazione della libertà – Rimedi giuridici – Illegittima detenzione del ricorrente in una struttura psichiatrica oltre il periodo previsto da una legge interna introdotta dopo l’imposizione della misura. Violazione art. 5 § 5 C.e.d.u. – Nessun rimedio per la detenzione illegittima (Corte EDU, Sez. I, 6 giugno 2024, Cramesteter c. Italia, n. 19358/17)

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto violato da parte dell’Italia l’art. 5 §§ 1 e 5 C.e.d.u. per aver subito il ricorrente un periodo di detenzione illegittima presso una struttura psichiatrica giudiziaria oltre il periodo consentito ex lege.

Il ricorrente era stato processato e condannato in primo grado per reati di detenzione abusiva di armi e ricettazione. Durante il giudizio di appello l’imputato era stato assolto per vizio totale di mente al momento della commissione dei reati. A causa della sua pericolosità sociale veniva, però, disposta la misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo iniziale di due anni.
La misura di sicurezza a carico del ricorrente veniva successivamente prorogata più volte da parte del magistrato di sorveglianza, in quanto riconosciuta la perdurante pericolosità sociale del soggetto. A seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, il ricorrente era stato inserito presso una REMS. Durante il suo stato di permanenza presso la struttura REMS, era intervenuta la modifica normativa ad opera dell’art. 1, comma 1°-quater, d.l. 31 marzo 2014, n. 52 con cui il termine di durata massima delle misure di sicurezza veniva parametrato alla cornice edittale massima della fattispecie astratta.
Dato che il tempo di detenzione trascorsa dal ricorrente era stato superiore a quello della pena massima dei reati allo stesso contestati e in ragione del fatto che le autorità italiane avevano respinto le relative richieste di riparazione per ingiusta detenzione, il ricorrente adiva la Corte di Strasburgo assumendo la violazione dell’art. 5 §§ 1 e 5 CEDU.
La Corte europea ha anzitutto ricordato che qualsiasi privazione della libertà personale non solo deve rientrare in una delle eccezioni di cui ai paragrafi da a) a f) dell’art. 5 § 1 CEDU, bensì deve anche essere “legittima”. Per quanto riguarda la “legittimità” della detenzione, compreso il rispetto dei “rimedi giuridici”, la Convenzione rimanda essenzialmente alla legislazione nazionale e stabilisce l’obbligo di osservarne le norme sostanziali e procedurali (§ 48).
Tuttavia, ai fini di un pieno rispetto dei principi convenzionali queste considerazioni non possono limitarsi ad una mera corrispondenza formale del dettato normativo. Per contro, al fine di essere ritenuta legittima, la restrizione della libertà personale deve corrispondere ai criteri assiologici dello Stato di diritto (§ 49). Ne deriva che il diritto interno deve definire chiaramente le condizioni in cui una persona può essere privata della libertà. In altri termini, la legge che prevede i casi e le modalità della restrizione della libertà personale deve essere prevedibile nella sua applicazione, in modo da soddisfare il criterio di “legalità” stabilito dalla Convenzione europea, secondo cui una legge deve essere sufficientemente precisa da consentire a un individuo – se necessario con l’assistenza di un consulente – di prevedere, in misura ragionevole nelle circostanze del caso, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (Corte EDU, Grande Camera, 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, n. 16483/2012; §§ 91-92; Corte EDU, Grande Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, n. 42750/2009; § 125).
Il giudice sovranazionale ha osservato che la detenzione cui il ricorrente era stato sottoposto era inizialmente legittima e che soltanto a seguito della novella normativa si è profilato un periodo di detenzione che ha superato i limiti massimi consentiti dalla legge e va, dunque, considerato in violazione dell’art. 5 § 1 CEDU (§§ 53-56).
Anche con riguardo al secondo punto di doglianza sollevato dal ricorrente la Corte di Strasburgo ha ritenuto violati i principi convenzionali. Sotto tale specifico profilo, la Corte ha ribadito che l’art. 5 § 5 CEDU sul risarcimento del danno per una privazione della libertà non conforme alla legge è effettivamente rispettato solo e nella misura in cui il godimento del diritto alla riparazione garantito da quest’ultima disposizione viene assicurato con un sufficiente grado di certezza (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 17 gennaio 2012, Stanev c. Bulgaria, n. 36760/06, § 182; Corte EDU, Grande Camera, 18 dicembre 2002, N.C. c. Italia, n. 24952/94, § 49). Ulteriormente, tale diritto deve essere non solo previsto a livello astratto, ma è altresì necessario che sia facilmente accessibile a livello pratico (§ 68).
Il giudice sovranazionale, posto che il ricorrente non ha avuto la possibilità di ricevere presso le autorità giudiziarie nazionali alcun risarcimento del danno per l’illegittima detenzione cui è stato sottoposto, ha ritenuto violato l’art. 5 § 5 CEDU (§ 70-75).
In definitiva, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 §§ 1 e 5 CEDU, riconoscendo al ricorrente la corresponsione di € 8.000,00 per danni morali subiti.