Pubblicato in data 11 novembre 2022
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3, lett. c), C.e.d.u. da parte della Francia per aver l’autorità giudiziaria adottato una sentenza di condanna sulla base di dichiarazioni autoincriminatorie rese dal ricorrente, sospettato, libero, durante l’iniziale fase investigativa all’autorità giudiziaria, ma non informato del diritto di rimanere in silenzio e del diritto di avvalersi di un difensore, e considerato che il procedimento penale, nel suo complesso, non ha consentito rimedio alle limitazioni dei diritti fondamentali.
I ricorrenti, D. Merahi e L. Delahaye, sono cittadini francesi e vivono in Francia. Il caso trae origine da un episodio che ha visto l’incendio di un autobus parcheggiato (luglio 2010). Dalle prime indagini è emerso il ritrovamento di pezzi di vetro all’interno dell’autobus ed anche di una bottiglia di whisky rotta posizionata a trenta metri dalla scena del crimine. Su tale bottiglia sono state rilevate le impronte del signor Merahi, che sarà poi sentito sui fatti dalla polizia previa delega del pubblico ministero. E proprio su tali dichiarazioni e sulle modalità secondo cui sono state acquisite ruota la pronuncia della Corte EDU e, prima ancora, le censure mosse dai ricorrenti.
Nel dettaglio: Merahi viene sentito presso la gendarmeria in qualità di sospettato; è in stato di libertà; viene informato di essere sospettato di aver distrutto un autobus parcheggiato dandogli fuoco; rilascia dichiarazioni con le quali riconosce di aver dato fuoco, insieme al secondo ricorrente, a quell’autobus.
Oggetto di ricorso è l’art. 6, §§ 1 e 3 (c) C.e.d.u. nella parte in cui assicura il diritto ad un equo processo, il diritto al silenzio e il diritto di accesso ad un avvocato.
In particolare, i ricorrenti lamentano di essere stati condannati in un procedimento penale sulla base delle dichiarazioni rese dal sig. Merahi durante un interrogatorio, reso in fase preliminare, ma nel corso del quale egli non era stato informato del suo diritto di rimanere in silenzio e non era stato assistito da un avvocato.
Nonostante all’epoca dei fatti, il 14 maggio 2011, per quanto riguarda quel tipo di interrogatori la legislazione francese in vigore non prevedeva né il diritto al silenzio, né il diritto all’assistenza di un avvocato (§§ 22 e ss.), dall’analisi della vicenda processuale è, però, emerso che, in momenti successivi a quelle prime dichiarazioni, il ricorrente aveva avuto la possibilità di avvalersi di un difensore ed a quel punto si era avvalso del diritto al silenzio (§ 67) e non aveva confermato la sua iniziale confessione (§ 78).
Nell’esaminare la vicenda processuale, i giudici sovranazionali hanno rilevato come il ricorrente sia stato informato dei fatti a lui addebitati fin dall’inizio, che egli ha acconsentito ad essere ascoltato e che, essendo libero, poteva lasciare i locali della polizia in qualsiasi momento (§ 68). Ciò non toglie che egli non sia stato adeguatamente informato dei suoi diritti nel momento in cui veniva ascoltato dall’autorità giudiziaria in veste di sospettato. Qualifica, quest’ultima, che porta il ricorrente a trovarsi in situazione di vulnerabilità (in proposito, v. Salduz c. Turchia [GC], n. 36391/02, § 54, CEDU 2008 e Beuze c. Belgio [GC], n. 71409/10, § 163, 9 novembre 2018, §§ 126 e 127) (§ 76).
A fronte di tanto, la Corte EDU ha ritenuto di dover valutare l’equità complessiva del procedimento penale cui il ricorrente è stato sottoposto al fine di stabilire se le limitazioni subite dallo stesso circa i suoi diritti fondamentali siano state in qualche modo compensate nel corso del processo al punto da poterlo considerare equo nel suo complesso (§ 79). In questa prospettiva di analisi, la Corte EDU ha constatato che talvolta possono esservi delle restrizioni di accesso alla difesa, ma dovute soltanto a motivi imperativi e per casi eccezionali, ed aventi natura temporanea, nonché fondate su una valutazione delle circostanze particolari del caso (§ 70). A tal riguardo, la Corte europea ha chiarito che l’onere della prova in tal senso spetta al Governo (Simeonovi c. Bulgaria [GC], n. 21980/04, § 130, 12 maggio 2017 e Beuze c. Belgio [GC], n. 71409/10, § 163, 9 novembre 2018). Atteso che, nella fattispecie, non è emersa una prova sufficiente sul punto e che, per contro, è risultato che tali dichiarazioni confessorie da parte del ricorrente costituivano parte integrante e rilevante degli elementi di prova su cui si basava la condanna dei ricorrenti (§ 87), la Corte ha ritenuto violati i principi dell’equo processo.
In particolare, il giudice sovranazionale ha notato che il sig. Merahi è stato in grado, nelle fasi successive del procedimento, di difendersi e far valere le proprie ragioni con l’assistenza di un avvocato; che i giudici si sono basati, tra l’altro, su elementi di prova diversi dalle dichiarazioni rese durante la fase preliminare; che i ricorrenti sono stati assolti in primo grado avendo il tribunale penale deciso di non tenere conto di quelle dichiarazioni; che il giudice d’appello ha, invece, ribaltato l’assoluzione ritenendo quelle dichiarazioni pienamente regolari.
Infine, la Corte EDU ritiene che nel caso di specie sia stata la combinazione dei vari fattori, e non ciascuno di essi preso isolatamente, a rendere il procedimento penale ingiusto nel suo complesso (cfr. Beuze, cit., § 194, Olivieri, cit., § 40). Tali fattori vengono così elencati: l’assenza di assistenza legale, la mancata comunicazione del diritto di rimanere in silenzio e del diritto di lasciare i locali (quali elementi che hanno contribuito alla sua autoincriminazione) ed, inoltre, il ruolo decisivo svolto dall’esito di condanna del procedimento penale. Di conseguenza, secondo la Corte EDU, il procedimento penale a carico del sig. Merahi, nel suo complesso, non ha consentito rimedio alle gravi carenze procedurali che si sono verificate nel corso dell’iniziale audizione del ricorrente (§§ 88 e 89).
La Corte sovranazionale ha, pertanto, riconosciuto la violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 C.e.d.u.; ha ritenuto che l’accertamento di una violazione costituisca di per sé una giusta soddisfazione per qualsiasi danno morale subito dai ricorrenti; ha condannato la Francia al pagamento, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza diverrà definitiva, della somma di 3.600 euro per spese processuali.
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