La Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la violazione dell’art. 3 C.e.d.u. da parte dell’Italia in quanto le denunce di violenza domestica subita da una donna ad opera del marito danno luogo all’obbligo per lo Stato di intervenire, proteggere e svolgere un’indagine effettiva e tempestiva e giungere ad una valutazione giudiziale dei fatti che soddisfi i requisiti dell’art. 3 C.e.d.u. dal punto di vista degli obblighi materiali e procedurali.
La Corte e.d.u. ha ritenuto all’unanimità che c'è stata violazione dell'art. 3 C.e.d.u. nel suo aspetto degli obblighi materiali rispetto al primo periodo dei fatti denunciati (dal 19 gennaio 2007 al 21 ottobre 2008), mentre tale violazione non vi è stata nel periodo successivo (dal 21 ottobre 2008 al 5 gennaio 2018). Inoltre, la Corte ha rilevato per l’intero periodo una violazione dell'articolo 3 C.e.d.u. dal punto di vista degli obblighi procedurali.
La vicenda trae origine da fatti di violenza domestica ripetuti per un lungo periodo di tempo durante il quale la ricorrente aveva presentato più volte denuncia alle forze di polizia, a seguito delle quali erano stati attivati dei procedimenti giudiziari conclusisi, in parte, con declaratorie di prescrizione dei reati. La ricorrente dinanzi alla Corte e.d.u. ha lamentato la violazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 3 C.e.d.u. per mancanza di tutela e assistenza da parte dello Stato italiano riguardo alle aggressioni subite dal marito e per il fatto che alcuni dei reati siano andati prescritti a causa della lunghezza delle procedure attivate dall’autorità giudiziaria.
Nel valutare le censure mosse dalla ricorrente, la Corte e.d.u., in un primo momento, si è soffermata a valutare la riconducibilità delle stesse nell’ambito di applicazione dell’art. 3 C.e.d.u. (§§ 109-113). A questo riguardo, la Corte ha vagliato se i fatti di maltrattamento da cui ha origine l’intera vicenda presentino quel minimo di gravità tale da poter essere ascritti ad un’eventuale violazione dell’art. 3 C.e.d.u. L'apprezzamento di questo requisito dipende da molteplici dati: la natura e il contesto del maltrattamento, la sua durata, i suoi effetti fisici e psicologici, il sesso della vittima, il rapporto tra la vittima e l'autore del trattamento. Questa tipologia di maltrattamenti comportano danni fisici o gravi sofferenze fisiche e psicologiche. Tuttavia, anche in assenza di tali effetti, qualora il trattamento umilia o degrada un individuo, pregiudicando la sua dignità umana o sminuendola, o suscita nella persona interessata sentimenti di paura, ansia o inferiorità può essere qualificato come degradante e rientrare, dunque, nel divieto di cui all'art. 3 C.e.d.u. (Bouyid c. Belgio [GC], n. 23380/09, §§ 86-87) (§ 109). Secondo quanto rilevato dalla Corte e.d.u. nella sentenza in commento e nella precedente giurisprudenza, oltre alle lesioni fisiche, il pregiudizio di tipo psicologico è un aspetto importante della violenza domestica (Valiulienė c. Lituania, n. 33234/07, § 69, 26 marzo 2013, e Volodina, c. Russia (n. 2), n. 40419/19, §§ 74-75, 14 settembre 2021) (§ 110.). Va, inoltre, considerata la sofferenza morale che è causata dallo stato di ansia e stress, nonché la paura di ulteriori attacchi (Eremia c. Repubblica di Moldova, n. 3564/11, § 54, 28 maggio 2013, TM e CM v. Repubblica di Moldova, n. 26608/11, § 41, 28 gennaio 2014, e Volodina, cit., § 75). La Corte ribadisce che spetta alle autorità statali prendere misure per proteggere un individuo la cui integrità fisica o psicologica è minacciata dagli atti criminali di un membro della famiglia o di un suo partner (Kontrová c. Slovacchia, n. 7510/04, § 49, 31 maggio 2007, M. e altri v. Italia e Bulgaria, n. 40020/03, § 105, 31 luglio 2012, e Opuz contro Turchia, n. 33401/02, § 176) (§ 114).
È noto come nella giurisprudenza sovranazionale siano stati delineati degli obblighi a carico dello Stato scaturenti dal divieto di porre in essere trattamenti inumani e degradanti. Gli obblighi positivi che incombono sulle autorità ai sensi dell'articolo 3 C.e.d.u. includono, in primo luogo, l'obbligo di porre in essere un quadro normativo e di protezione (c.d. obblighi materiali); in secondo luogo, l'obbligo di adottare misure operative volte a tutelare determinate persone dal rischio di trattamenti contrari all’art. 3 C.e.d.u. (c.d. obblighi materiali); in terzo luogo, l'obbligo di svolgere un'efficace indagine (c.d. obblighi procedurali).
Questi obblighi sono stati dalla Corte delineati in modo specifico ove riguardino casi di violenza domestica o di genere e vengono nella sentenza in commento così riassunti (§ 116):
a) le autorità devono rispondere immediatamente alle accuse di violenza domestica;
b) quando tali accuse sono portate alla loro attenzione, le autorità devono stabilire se esiste un rischio reale e immediato per la vita di vittime di violenza domestica che sono state identificate e devono farlo, procedendo ad una valutazione del rischio che sia autonoma, proattiva ed esauriente, tenendo in debita considerazione il contesto particolare dei casi di violenza domestica;
c) quando tale valutazione evidenzi l'esistenza di un rischio reale e immediato per la vita degli altri, le autorità sono tenute ad adottare misure operative preventive.
Applicando i detti principi al caso di specie, la Corte rileva anzitutto che, da un punto di vista generale, la disciplina normativa interna è idonea ad offrire tutela nei casi di violenza domestica.
Tuttavia nella fattispecie sono emerse delle lacune che vengono dalla Corte e.d.u. stigmatizzate per quanto concerne il rispetto dell’art. 3 C.e.d.u.
La Corte ha stabilito (§ 129) che le autorità erano consapevoli della violenza di cui era stata vittima la ricorrente, posto che le affermazioni della stessa erano corroborate da prove, in particolare referti medici. In risposta alle accuse di aggressione, molestie e minacce e maltrattamenti della ricorrente, quattro indagini sono state aperte dall'autorità giudiziaria italiana.
Per quanto riguarda la prima indagine, relativa al fatto del gennaio 2007, la Corte rileva che il soggetto denunciato era stato rinviato a giudizio nell’ottobre 2008, ventuno mesi dopo i fatti, e che la condanna in primo grado era stata pronunciata nel giugno 2014, cioè sette anni dopo i fatti, ma la motivazione è stata depositata nel marzo 2015. Il giudizio d’appello nel giugno 2016 si era concluso con declaratoria di prescrizione dei reati. Quanto alla seconda indagine, relativa alle denunce depositate tra febbraio 2007 e ottobre 2008, la Corte ha rilevato che la sentenza di primo grado era stata pronunciata in aprile 2015 e che il soggetto denunciato era stato condannato soltanto per alcuni reati, mentre altri nel corso del giudizio d’appello (marzo 2016) erano stati dichiarati prescritti. Quanto alla terza indagine, relativa alle denunce presentate nel 2010, la Corte ha preso atto che il Tribunale aveva pronunciato la sentenza nel novembre 2020, a dieci anni dai fatti. Infine, per quanto riguarda l'ultima indagine in merito alla denuncia per molestie presentata nel 2013, il denunciato è stato rinviato a giudizio quattro anni dopo e il procedimento era ancora pendente (§ 141).
La Corte è del parere che, nella trattazione giudiziale delle controversie in tema di violenza contro le donne, spetta alle autorità nazionali valutare prima possibile la situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità, morale, fisico e/o materiale, della vittima (§ 142) e considerare tali reati come meritevoli di una priorità speciale nella loro trattazione per non incappare nella prescrizione dovuta ad inattività dell’autorità giudiziaria (§ 144). Del resto - ricorda la Corte - la specificità degli atti di violenza domestica è già stata riconosciuta nel preambolo della Convenzione di Istanbul e dovrebbe essere presa in considerazione nel quadro delle procedure interne dei singoli Stati (§ 148).
La Corte ribadisce che nei casi di violenza domestica gli Stati debbano attivarsi in modo più severo per punire i soggetti accertati come responsabili poiché non si tratta soltanto di accertamento delle responsabilità penali individuali. Occorre altresì che non si lascino impuniti atti di aggressione all'integrità fisica e morale delle persone. È dovere dello Stato combattere il sentimento di impunità per gli aggressori e mantenere la fiducia della collettività nei riguardi di uno Stato di diritto, “in modo da prevenire qualsiasi parvenza di tolleranza o collusione delle autorità in merito ad atti di violenza” (Okkalı c. Turchia, 52067/99, § 65).
Nel caso di specie, non era stata richiesta alcuna misura cautelare per l’aggressione subita dalla ricorrente nel 2007 con un coltello. Quanto ai fatti di molestie, minaccia ed aggressione con un bastone del 2008, era stata adottata la misura cautelare degli arresti domiciliari, ma per un periodo piuttosto esiguo (tre mesi), ed era stata poi sostituita con la misura meno restrittiva del divieto di soggiorno nel comune, che si rivelò però inefficace in quanto il marito della ricorrente seguitava nelle sue condotte di pedinamento e minaccia.
Pertanto, secondo i giudici sovranazionali, le autorità italiane non hanno agito con sufficiente tempestività e diligenza entro limiti ragionevoli finendo sostanzialmente per garantire all’autore dei fatti uno stato di impunità quasi totale (su questi profili v., tra gli altri, İbrahim Demirtaş § 35; Beganovic v. Croazia, n. 46423/06, §§ da 85 a 87, 25 giugno 2009, Valiulienė, §§ da 85 a 86, e, per quanto riguarda l'articolo 2, Alikaj e altri c. Italia, n. 47357/08, §§ 107 e 108; 29 marzo 2011, Mehmet Şentürk e Bekir Şentürk c. Turchia, n. 13423/09, §§ da 98 a 101) (§ 143).
A fronte di tanto, i giudici sovranazionali nella sentenza in commento puntano il dito contro una declaratoria di prescrizione che va a ricadere su fatti quali maltrattamenti e reati di violenza domestica se all'origine della prescrizione vi sono inadempienze delle autorità, come sopra dimostrato (vedi Valiulienė, sopra citata, § 85) (§ 144).
La Corte ha notato come dalla Relazione sull’Italia svolta da GREVIO (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence, Consiglio d’Europa), emerga che i ritardi nei procedimenti penali generino la prescrizione di un gran numero di casi, anche per reati minori, come minacce e lesioni lievi (§ 145). A questo proposito la sentenza fa cenno (§ 77) alle riforme susseguitesi negli ultimi anni in tema di prescrizione (l. n. 9 del 2019; l. n. 134 del 2021) ed anche alla giurisprudenza in proposito da parte della CGUE (§ 79 e 82).
Infine, la Corte e.d.u. ha concluso nel senso che spetta allo Stato organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da consentire ai suoi tribunali di soddisfare i requisiti della Convenzione europea e, in particolare, gli obblighi derivanti dall'art. 3 C.e.d.u. (§ 147).
In riferimento al caso di specie, la Corte ha preliminarmente osservato che, da un punto di vista complessivo, il quadro normativo italiano era adeguato a garantire protezione contro atti di violenza da parte di privati; che la polizia aveva risposto senza indugio alle denunce presentate dalla ricorrente. Tuttavia, la Corte ha fatto una distinzione tra due periodi interessati dai fatti denunciati dalla ricorrente. Nel primo periodo, dal 19 gennaio 2007 al 21 ottobre 2008, ha ritenuto che le autorità abbiano mancato al loro dovere di effettuare una valutazione immediata e proattiva del rischio di una reiterazione della violenza contro la ricorrente e di adottare misure preventive operative volte a mitigare quel rischio. Nessuna misura era stata adottata dalle autorità per un periodo di circa tredici mesi. L’autore dei fatti non era stato arrestato, né erano state adottate misure precauzionali o protettive. In particolare, il giudice sovranazionale ha segnalato la lunghezza degli interventi di carattere giudiziario (il rinvio a giudizio richiesto dieci mesi dopo i fatti denunciati, l'udienza preliminare svolta diciannove mesi dopo). Periodi in cui i rischi di violenza ricorrente non erano stati adeguatamente valutati o presi in considerazione.
Per quanto riguarda il secondo periodo, dal 21 ottobre 2008 al 5 gennaio 2018), invece, la Corte ha ritenuto che le autorità avessero svolto un'attività autonoma, propositiva e una valutazione completa del rischio. Gli agenti di polizia non si erano limitati a ricevere le denunce della vittima ma avevano basato la loro valutazione su diversi altri fattori e elementi di prova, tra cui le dichiarazioni di altre persone coinvolte nella vicenda. I rischi di una reiterazione della violenza erano stati adeguatamente presi in considerazione, e pure disposta una misura cautelare, avviando un procedimento penale contro il soggetto denunciato dalla ricorrente.
Pertanto, in riferimento al primo periodo, la Corte ha ritenuto che le autorità avessero fallito nel loro positivo obbligo di cui all'art. 3 C.e.d.u. di tutelare la ricorrente dalla violenza domestica e ha ritenuto che vi sia stata violazione degli obblighi c.d. sostanziali scaturenti dalla norma. Mentre, per quanto riguarda il secondo periodo dei fatti denunciati, la Corte ha ritenuto che le autorità avessero rispettato gli obblighi positivi di proteggere la ricorrente dalla violenza domestica e che pertanto non vi sia stata violazione dell'art. 3 C.e.d.u. sotto il profilo “sostanziale”.
Per l’intero periodo la Corte ha rilevato una violazione dell'art. 3 C.e.d.u. dal punto di vista degli obblighi procedurali.
Da aggiungere che la Corte ha concluso nel senso che gli inadeguati interventi dell’autorità giudiziaria in confronto a quanto richiesto dall’art. 3 C.e.d.u. non possono essere ritenuti rivelatori di un atteggiamento discriminatorio nei riguardi della ricorrente. Viene, pertanto respinta in quanto manifestamente infondata la censura di violazione dell’art. 14 C.e.d.u.
L’Italia è stata condannata al pagamento di euro 10.000 per danno morale.
Ai sensi degli articoli 43 e 44 della Convenzione, questa sentenza non è definitiva (7 luglio 2022).
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