Il ricordo di Giuseppe Di Federico

di Alfredo Gaito

Le feste di fine anno sono di solito il tempo degli affetti e dei saluti. Eppure, quest’anno c’è un messaggio che non arriverà, che non allieterà le nostre giornate: quello di Beppe, che si è spento proprio tre mesi fa, il 23 settembre.
Giuseppe Di Federico era una persona entusiasta, dalla mente aperta e dal piglio fermo, ma soprattutto – consentitemelo – un amico sincero, che ha lasciato un vuoto difficile da colmare e ancor più da metabolizzare.
L’Alma Mater di Bologna era la sua università: lì, negli anni Ottanta, ha ispirato l’istituzione della cattedra autonoma di “Ordinamento giudiziario”, di cui aveva studiato i fondamenti a Firenze con Piero Calamandrei e Mauro Cappelletti, sedendo, da ordinario, sulla prima cattedra.
Dell’ordinamento e della giustizia come organizzazione aveva fatto i suoi argomenti d’elezione, innovando la ricerca attraverso l’uso di teorie sociologiche e di metodologie empiriche, consolidate durante i soggiorni statunitensi.
Beppe Di Federico aveva intuito e spiegato come nel reclutamento, solo teorico e non attitudinale, e nell’ineffettività del giudizio di professionalità della magistratura si annidassero le insidie peggiori, quelle intrinseche e strutturali, del sistema e aveva suggerito l’integrazione di metriche oggettive, quasi manageriali, nelle valutazioni qualitative dell’operato dei magistrati. Credeva fermamente nella funzione proattiva e responsabilizzante delle regole disciplinari, utili a restituire umiltà a quei magistrati latori di “scarsa attenzione e eccessiva fiducia in sé stessi”.
Sull’ufficio del Pubblico Ministero ha condotto studi serrati e comparativi, raccogliendo e rielaborando una mole di dati senza precedenti negli studi giuridici. Le sue coordinate più attuali: l’ipocrisia totemica dell’obbligatorietà dell’azione penale; la necessaria accountability dei requirenti; la definizione su base distrettuale delle politiche criminali.
Senza trascurare, infine, che Beppe Di Federico militava ragionatamente a favore della separazione delle carriere, sottolineando le anomalie dell’accusatorio all’italiana del 1989 e presagendo i “riflessi disfunzionali di tipo sostantivo che l’appartenenza di PM e giudici allo stesso ordine” poteva ingenerare, a partire dalla “forte coesione corporativa e [da] diffuse solidarietà di gruppo e interindividuali”, che creano condizioni tali per cui ogni controllo appare (se non è di fatto) attenuato.
Con profondo e accorato rammarico, mi tocca dire che sarebbe stata la prima voce da intervistare sulla riforma costituzionale in corso, inaugurando una nuova sezione nell’Archivio Penale 2026. Con speranza (auspicabilmente non illusoria), tocca credere che i suoi scritti costituiscano la bibliografia essenziale per ogni confronto in materia, in adesione o in cavalleresca opposizione che sia.